Qualche nota sui testi di “Un invito a te” del cantautore Diego Mancino

“Ma tu non credere no, che appena si alza il mare gli uomini senza idee per primi vanno a fondo”. Luigi Tenco

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 “Un invito a te”, il nuovo album di Diego Mancino scritto con la collaborazione di Dario Faini, Stefano Brandoni e William Nicastro, uscito da pochi giorni, mi piace associarlo a una raccolta di racconti brevi, perché l’approccio dell’autore verso la scrittura è anche letterario. Ho ascoltato Diego Mancino per la prima volta lo scorso luglio alla radio, e quello che mi ha folgorato, oltre al sound di qualità, è l’uso della lingua in “Succede l’estate”, un brano magnetico, che riecheggia come altri suoi pezzi (“Avere fiducia”, che sarebbe perfetto anche per Mina) la tradizione italiana anni sessanta, citandola in modo “colto”. Questo uso di lemmi e di sintagmi non scontati è gettare piccoli lingotti d’oro fuso nella costruzione musicale della canzone, a lasciare brevi e scattanti incisioni.  “Appesa alla mia bocca”, “stupido tremore” e la sua variante “breve e stupido clamore”, “tutta questa luce mi fa sentire cieco, “tutta questa sabbia mi sembra di neve”; la variante “grazia” associata al posto di “sabbia” nuovamente a “neve”. ..Poche parole, ben distanziate, che lasciano all’ascoltatore (al lettore) il tempo di pensare, di dilatare la sua percezione, di riempire la pagina e aggiungervi un personale contributo d’immaginazione.

I testi di Mancino riportano all’arte e alla fotografia contemporanea, con i loro paesaggi astratti di tele sabbiate e di luce in sovraesposizione; e il “tavolo nel sole” vede due amanti hopperiani che, probabilmente, faticano a comunicare. “Il suo aquilone” ha atmosfere chagalliane, se facciamo caso ai versi “Se m’immagino volare, volo attratto dal suo cuore”, e “un concerto di orchestre impazzite che gridano/suonano al vento”.

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Alcuni brani sono criptici. “Il suo aquilone” contiene tempi verbali sfalsati – “ti promettevo un futuro mentre guardi nel retrovisore” – giustapposizioni di sostantivi e aggettivi stranianti (“un satellite morbido e rosa”, “c’è qualcosa di tuo che è rimasto incollato nel sole”). Il brano “Era solo ieri” è più discorsivo che il precedente, racconta la visione che si ha di persone e paesaggi durante l’adolescenza. Il quartiere, nella narrazione della nostalgia, diventa più che un assemblaggio di palazzi e strade – ritorniamo all’arte contemporanea –  se l’autore vede “costellazioni di finestre” e una “flotta di amici disfatti sopra a un motorino”, e se le città lontane da conquistare sono scintillanti come i grattacieli – diamanti di Truman Capote a descrivere New York.

Un modo di percepire la realtà non “realistico”, che si ricollega anche al legame del cantautore con il concetto di “sacro”. Nella canzone “Un invito a te” il testo rovescia i termini di un discorso logico; la cinica realtà di un pensiero positivista è considerata fumo, inconsistenza, mentre un pensiero sacro, “tribale” ha carne ed ossa, riveste un valore concreto. A confermare questa linea concettuale frasi e parole chiave ricorrenti in quasi tutte le canzoni, come “volo” e “volare”, “cielo viola”, “il cielo più profondo”, “le braccia distese ad un vento salato arreso alla gioia di pensiero vuoto”, “come il vento fra i boschi”, “vieni a cercarmi l’anima”, e così via.

Alcuni pezzi dell’album sono veri e propri manifesti del pensiero di Mancino, più descrittivi e assertivi di altri. Fra i brani inserisce anche “Ragazzo mio” di Luigi Tenco, che reinterpreta e mischia alla sua produzione per dire quello che gli preme con le parole di qualcun altro, eclissandosi per qualche minuto dietro il sipario.

Perché, diciamolo, il lato più originale e interessante di Mancino è la personalità che emerge dalla sua opera e da qualche intervista ascoltata, un caso singolare di coincidenza arte – vita, non tanto diffuso in Italia.

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La scrittura di questo autore è concepita e portata avanti in dialogo permanente e fecondo con una comunità ideale di resistenti. Non è per tutti, insomma, ma cerca di richiamare più persone possibili all’appello. In ogni stilla di musica e parola, nel suo modo non commerciale di proporsi (geniale la campagna di crowdfunding con cui si è fatto finanziare l’ultima opera dai suoi fans e il suo modo confidenziale e affettuoso di condurla) Diego Mancino propone un modello di cultura, del fare cultura, da “resistente”. Se si vive con lo scopo di “badare al cuore”,cercando di andare all’essenza delle cose; se si appellano gli altri attivando il proprio daemon, addirittura il proprio animale medicina (“fai come i lupi nei boschi” – in “Un invito a te”), si richiamano sciamanicamente energie profonde in una società scorticata dal business e dall’omologazione.

Chissà, forse fra le macerie del degrado culturale, potrebbero rinascere cellule di sana radioattività contagiosa e positiva.