Camminando apre le piante dei piedi verso l’esterno
ogni giorno il mondo le inietta nelle vene l’antidoto alla grazia.
La osservo: non è ancora matura, potrebbe apparire bella,
ma:
apre troppo la bocca per mangiare
non rimette le ciocche dei capelli al giusto posto
mentre conversa, ma per contraltare
alza troppo il tono della voce.
Ripose le sue perle nella conchiglia di un matrimonio d’occasione
tuttavia non ha spolverato ogni giorno con cura la casa delle bambole.
Si spediscono, lei e suo marito, freccette acuminate di antimonio
scavano il secchio di spazzatura fino in fondo con le mani
sono l’una lo specchio dell’altro, perfetti amanti instabili.
Lasciano passare quarti di mese nel silenzio, nel consueto rancore;
ritornano ogni volta a vantarsi
del tempo, della sofficezza della ciambella appena sfornata, dei vasi sul balcone
della vicina sgarbata. Scappa una carezza. Fanno l’amore. Si chiude il cielo.
Lei è fermamente convinta senza chiarirlo a sè, o a chiunque altro
che le bombe di parole risalgano verso i caccia che volano ad alta quota
vincendo la forza di gravità.
Che sopraggiungerà un lieto fine o la sua morte precoce – di lei o di un familiare intimo
a cui è aggrappata come edera stanca, ma diffusa.
Tutto si presenta fuori controllo.
Nell’appartamento arredato al quinto piano del condominio di periferia
non cresce il bambino, non cambia la forma della luna.
Quei due sono immersi fino alla fronte nell’aceto dei giorni
e per questo io vi dico, e ne sono convinta ormai, che in quella casa
nulla si trasformerà, nulla si innalzerà, nulla si risanerà.
Spero che il caso, il destino, un miracolo per mano del santo preferito di lei
mi smentiscano duramente.