Oran se andò con la bicicletta nell’ora in cui cambiava l’odore del villaggio e la lunga sciarpa di mare davanti al giardino della Villa virava dal turchino al blu.
In casa, le donne si stavano lavando e truccando nel bagno, chiacchierando forte e gesticolando contro le piastrelle rosa. La zia Mante aveva vaporizzato il suo profumo forte e arcigno da una piccola bottiglia addobbata con una specie di vestitino giallo tenue.
La Cugina Lana giocava con zia Mante a dama sul terrazzo, accanto al dondolo;
Zio Boetius disputava una partita a scopone sotto gli alberi di limone con Nonno Silvano, Zio Leon e due uomini che lei non aveva mai visto prima.
Oran aveva messo il cappellino con la visie.ra e riempito il cestino della bicicletta con quattro fichi neri.
Andando, si tenne al bordo della strada polverosa come le raccomandava sempre di fare la mamma. La sorpassò qualche automobile diretta a Roca Li Posti. Dal finestrino aperto a metà di un’auto gialla un bambino la indicò al fratellino.
Appena arrivata, Oran lasciò la bicicletta sul margine della via e si precipitò verso la vasca naturale che si spalancava dentro le rocce bianche: due palmi di gigante uniti, a coppa, a tenere l’acqua legata a sé; e tutto a pochi metri dallo sprofondo del mare.
L’ora aspra aveva già allontanato i turisti e questo, a lei, piaceva un sacco: amava scivolare sui massi enormi, scendere nel ventre della pietra e toccare l’acqua con le dita dei piedi, senza scocciatori in giro, senza uomini che si tuffavano scomposti calpestando l’acqua con le pance grosse e ragazzini che giocavano a pallanuoto, mentre le signore accudivano i bambini piccoli.
Più in là, dall’altra parte della strada c’era una cappella imbiancata a calce, solo una stanzetta, poche panche davanti all’ altare di tavole grezze. Un crocifisso appeso al muro. Un grosso vaso per terra conteneva le ginestre fresche.
La tenevano pulita le donne anziane del paese, che per il caldo e i pensieri non riuscivano a dormire e all’alba arrivavano con lo straccio e il secchio stipato di fiori nuovi.
Proprio sotto di lei, invece – l’aveva saputo da Papà Uriel – c’era l’accesso a un tempio molto antico che l’acqua aveva sommerso secoli prima lasciandolo nel più solitario degli abbandoni.
Adesso era soltanto il posto sacro dei saraghi, della prateria di posedonia; era il covo dell’anemone dorata e della sogliola, regine del silenzio verde e indaco. Papà le aveva raccontato che a volte, là sotto, al posto delle nenie dei sacerdoti diventati polvere si potevano udire gli schiocchi sordi delle corvine.
Quella mattina Oran aveva visto Mamma Marian appendere il bucato con la Nonna, Zia Mante e Lana nel cortile. Zio Boetius, Zio Leon e Nonno Silvano erano usciti presto con l’automobile.
Per quello si era potuta inoltrare nella parte della casa dove dormivano i Nonni.
Non aveva il permesso di entrare nelle stanze ad est della cucina.
Tenendo gli zoccoli in una mano aveva superato la porta di legno vecchio, perlustrato la penombra della stanza fresca, sfiorato con piacere il cotone bianco del copriletto ricamato dalla bisnonna.
Oran aveva accarezzato il bordo della toilette di ceramica smaltata sul treppiedi scuro. Aveva tuffato la faccia nell’asciugamano di lino leggero.
Sul lato della stanza opposto al letto c’era la porticina che portava alla camera dove dormiva lo Zio Boetius.
Lei l’aveva aperta con il cuore che le cantava di stare zitta, di non fare nessunissimo rumore, per carità: il suo respiro era diventato il pigolio del pulcino che le aveva regalato Papà Uriel durante la festa patronale.
La cameretta era stata ricavata dal grande corridoio che andava dalla sala alla cucina, molto dopo la costruzione della villa, ed era ventilata da una finestra di piccole dimensioni.
Le tende erano tirate, e lei sentiva odore di vestiti da uomo stirati troppo, quasi bruciati dal ferro. Una collezione di rosari risaltava cinquanta centimetri sopra la testata di ferro scolpito del lettino.
Oran smise di pensarci e tornò a guardare il mare che si imbitumava di sera.
Era tempo di andare a riprendere la bicicletta abbandonata nei rovi, e di assaggiare i fichi intiepiditi dall’attesa.