Poesiola per ridere

 

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Piangendo è venuta
a chieder conforto una donnina.
Bruttina, ma sorridente. Quasi piacente, via.
Si era fatta di fresco la ceretta
e sgombra dai baffi sembrava quasi graziosa.
Minacciava di togliersi la vita
o di presentarsi a casa dell’Amato
per reclamare quel che le spettava.
Cosa posso fare per aiutarti
le chiesi accorata
ti prego, dea
devi intercedere per me
presso il Poeta.
Chiedigli di dedicarmi una Poesia.
Una poesia. Risposi. Chiedi troppo, cara.
Roba da piani alti. Non posso accontentarti.
Chedigli allora, ti supplico
(e piangeva, piangeva la reietta)
di dedicarmi una sillaba o due.
Una mezza metafora.
Un aggettivo giulivo, un punto e virgola
mi basterebbe per sopravvivere
in questa valle di lacrime.
Ci provo, poveretta. Mi fai pena.
La baciai sulla fronte
(mi arrivava al petto)
e provai a chiedere
al poeta di salvare una vita.
Poeta, devi sforzar la penna
dedica almeno una strofa a questa cinna.
Anche a un cane scodinzolante
si butta un osso, ogni tanto
perché non faccia chiasso.

Luisa Bolleri. La grande poesia di “Involuzione della specie”

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Luisa Bolleri

“Il nostro pane amaro; “Fanno male questi tagli osceni”, “Sarò donna”, “Nel bunker”.
Quattro titoli che spartiscono in quattro ideali capitoli “Involuzione della specie” e introducono emotivamente/intellettualmente alla raccolta di poesie di Luisa Bolleri (i Quaderni del Bardo edizioni). Si profila al nostro orizzonte, già, sorvolandoli con lo sguardo, un paesaggio di scrittura complessa. Lontanissimo dal poetare monotono e quasi monotematico che leggiamo più spesso, dei poeti italiani, l’eloquio di Luisa Bolleri si dispiega in mille direzioni, cambia umore, tono e tema, padroneggiando contenuti e linguaggio per dire ciò che gli preme dire.

La prima poesia che incontriamo, “Il muro”, è una chiara resa della capacità della poetessa di empatizzare con la Storia e con gli effetti collaterali di crudeltà a cui sottopone gli esseri umani nel suo freddo dipanarsi. La poesia “civile” della Bolleri si allontana dalla retorica, è di alta ispirazione. L’incipit

Gli artisti non dimenticano Bernauer Straße, ribattuto sulla chiusa no, non possono dimenticare

auspica un ritorno della funzione civile, d’impegno della poesia che da qualche decennio va disperdendosi.
Il testo è introdotto dal secco titolo, dal sostantivo nudo “Il muro”. I versi procedono quasi per allucinazioni visive, flash di stragi strazianti e di dolori indicibili, per brevi e fratte frasi, e vengono continuamente sostanziati da riferimenti agli uomini che hanno sopportato la crudeltà; per non rischiare di allontanare la storia, per non ridimensionarne gli esiti tragici: la storia non è terreno astratto da commemorare con freddezza. L’uso del “tu” permette il riappropriarsi della vicinanza con le vittime, con i fatti crudi e violenti perpetrati per lungo tempo nel cuore di Berlino.

Nell’inverno infinito/l’aria al confine si smarriva/lacerandosi lungo il filo spinato/e tu inalavi l’odore rugginoso/a ogni respiro

L’effetto che provoca la poesia è dirompente per l’inserimento di vocaboli e frasi sul tema della sofferenza, dell’ineluttabilità del destino, a causa dell’aura di vaghezza semantica nei sintagmi scelti

lettere mai recapitate; Ad Alexanderplatz si interrompevano le corse; sogno mai esistito; cemento e tempo perso; bocche private di parola; e così via.

Nella breve poesia, invece, “Sun times” la Bolleri crea un effetto di semantica circolarità, mettendo in relazione parole dal significato ambiguo e altalenante. I versi non emettono sentenze, non descrivono, non spiegano:

Intacca le tue difese/la storia/mentre galleggia sfatta/nello stagno la prova/logica/delle tue manchevolezze.

Restiamo a leggere e a rileggere i versi; non conta il disvelamento di un significato esatto, ma l’eco che i contenuti portano fino a noi, l’impatto che ci segna.

In “Poesia Naïf “emerge un ulteriore aspetto della scrittura della Bolleri. Un ritmo già anticipato dal titolo come di filastrocca infantile, divisa in terzine; l’uso di un lessico privo di sfumature d’ambiguità; “mare”, “vento”, “sale”, “ricordi”, “uccello”, “pesce”.
L’ingenuità dei lemmi scelti non porta a versi ingenui; nella poesia viene espresso un pensiero robusto, denso, adulto. Notevole l’ellissi di senso del terzo verso della prima strofa:

Le radici sfilacciate/le ha mangiate il vento/io non appartengo

che lascia fluida l’interpretazione e apre a interrogativi ampi. Al centro del testo, poi, si rintraccia l’idea dell’erranza di chi narra, generata dall’immagine di un pallone sfuggito dalla mano, che viene collegata al vagare di un pensiero slegato dal corpo, puro linguaggio della mente che cerca invano di fissarsi sulla “forma delle cose”.

La forma delle cose/scivola dietro i ricordi/di come forse ero.

La “parte fanciullesca” dell’io poetante viene evocata solo alla fine, quando viene messa in contrapposizione con l’adulto consapevole.

Un bimbo che non sapeva/quanti morti e quanto sale/- Quanti! – contiene il mare.

Nella poesia “Siamo donne del novecento”, la Bolleri utilizza un linguaggio ricco di descrizioni di dettaglio. Un affresco alla Diego Rivera di un’epopea appena trascorsa, quella delle antenate contadine. L’autrice non si distanzia dall’oggetto rappresentato, perché utilizza il “noi” per narrare come in un racconto corale in versi l’esistenza di donne vissute un secolo fa. Sostanzia la trama di vita vissuta citando ad uno ad uno oggetti semplici del quotidiano:

la borsa piena di cipolle, i calzini stinti, il misero vestito a fiori

Diversi gli aggettivi che evidenziano lo stato di povertà. Il vestito a fiori è, per l’appunto, “misero”. La Storia che le trascina (le donne) è “Infame”, il muro è “scalcinato”. Il linguaggio esatto si sfuma presto in lingua evocativa, già nei primi versi

Siamo donne del Novecento/col fazzoletto sempre in testa/e pettini su nodi inestricabili

perché al lettore viene presto il sospetto che i nodi del pettine siano lontani da essere solo quelli dei capelli.
Man mano che si scivola verso il finale si disvela il tema centrale: in un contesto di indigenza e di assoluto sacrificio che arriva a deformare il corpo disinnescando persino un armamento di seduzione femminile, resterà per le protagoniste la possibilità di vivere sentimenti, che reclamano, d’amore? L’amore è tratteggiato finemente in un’immagine breve e intensa alla quarta strofa, è concentrato in un bacio frettoloso dato da chi forse parte per non tornare, parte per la guerra.

Baci rubati sulla punta dei piedi/un pontile di legno sopra il mare/una barca che parte nella notte/un’attesa che non ha più fine

Il finale è una nota di gratitudine verso il materno. L’esempio di queste donne di un tempo tramontato induce a replicare un modello di generosità anche oggi.

Avremo lo stesso sorriso stanco/che al bisogno non è mai mancato/e che ci ha riempito il cuore di calore

Una delle cifre originali della Bolleri è il legame dei suoi versi con il corporeo.
In molte poesie si rintracciano riferimenti al mondo fisico. Ricorrono nelle poesie le parole “pelle” (associata in un caso all’aggettivo “viva” come a fare alzare la temperatura al sostantivo; e viva è associato anche a “carne” in “Credere”), “corpo”, “cicatrici”, “cicatrice”, “sangue”, fino ad arrivare alla nominazione anatomica precisa degli organi interni con “ventricolo” o “corde vocali”
Alcuni sintagmi mettono a fuoco questo aspetto della materia cantata dalla poetessa:
“Nel corpo a corpo”, “il tuo corpo di carne”, “corpo morto e duro”, “poche ossa scarnite”, “c’era un nido nel mio corpo” sono solo poche espressioni scelte fra quelle presenti nella raccolta.
Ancora più pregnanti i casi in cui la poetessa associa frasi e vocaboli “corporei” a concetti d’altro genere producendo slittamenti di senso davvero interessanti:
“Se rimanessi qui – come farò – /vedresti sanguinarmi la coscienza”. Oppure: “l’inverno delle ossa”.
Non basta. Luisa Bolleri fa scivolare, in alcuni versi, le metafore o le descrizione dei corpi verso il grottesco, toccando vertici di poeticissimo splatter, creando uno spiazzamento nel lettore di senso e di piani di realtà. Accade in “Mummie vive”

Emblema asciutto/indifferente sordo/ai battiti del cuore/ventricolo scoppiato/sfratto esecutivo/asta senza salto/carpiato senza vasca/acqua senza pesci/ boccheggiante/vita senza amore/Noi mummie vive

in cui un serrato avvilupparsi di metafore raffinate che evocano luoghi vuoti e svuotati d’acqua e di significato prepara la chiusa atroce ed efficace, dove la mancanza d’amore si manifesta nell’avvizzimento estremo di un corpo.
Per arrivare all’ assurdità di un corpo non corpo, la cui descrizione paradossale viene stigmatizzata dagli ultimi versi non sense in “Invenzione da mare”

Dopo il morso a una coscia/l’ovatta fuoriusciva/filacciosa contro il vento/il seno destro si sgonfiava/inesorabile mancando l’aria/il sorriso penzolava sopra i denti/ Sono un falso e non lo sapevo.

Nella raccolta troverete molto altro. Luisa Bolleri è eclettica dispensatrice di linguaggi e di variazioni di colore. Si interessa alla storia, allo scavo esistenziale, alle violenze, agli inganni, smaschera ipocrisie sociali, mostra l’andatura dei vicoli ciechi delle storie, delle persone, dei fatti. Affonda la penna nei molteplici stati dell’essere, si pone e pone domande, indaga i sentimenti, osserva l’ombra delle cose ineluttabili, dialoga con la presenza della morte.

Siamo noi riflessi nella teca/noi a spiare ombre/a predire il futuro/Quanto vorremmo afferrare/il segreto dei giorni/che inghiotte i desideri/Siamo qui, siamo già morti/se solo chiudiamo gli occhi/e interroghiamo il tempo/Questo resterà solo, un nulla/poche ossa scarnite qualche dente/tre radi capelli e inutili vestiti/Pare lontano il rintocco/ma arriverà di colpo e/sarà notte.

Oppure:
L’orologio in alto sullo scaffale/segna un’ora ormai illegale/L’inverno nasconde in una tana/il letargo di ore fuori corso/La morte aspetta fuori

Luisa Bolleri è un’autrice che non perde mai la consapevolezza della forma che sta utilizzando, e al tempo stesso del bersaglio che vuole colpire, e ci regala una scrittura pulsante di vitalità e di ricerca autentica, umana, del mestiere del vivere.

Stelle e stalle. Diamanti e vetro rotto. Sublimità e bassezze. Pour parler

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Ho visto cose che voi umani
(disse la Stella fremente)
un’aspirante poetessa
del verbo lamentarsi
dolersi
deprimersi e deprimere ogni cosa attorno
gambe corte naso grosso
mesta, lessa, ossessa
matrimonio andato a male
vita di oscura provincia
andare a mangiare torva e mogia
i resti della festa
mendicare un brano di attenzione
dove c’è stato un amore
attratta dalla luce
che mai seppe ispirare
attirare con tenacia commovente
il sole fiacco
disfatto da un altro attacco
con una posizione da sottomessa
lei, pecorina del presepe
davanti alla grotta dei santi.
L’innamorata con la fiatella
riesce a soppiantar la Stella
consiglia il sole di bendarsi:
la Stella è un errore.
“Sono io il chiarore che ti salva.”
La grigia donzella naso grosso
lo pensa giorno e notte
lo ottiene, vince, agitando le corte gambette
in un valzer da operette,
Qualcuno avverta la tapina:
dalla scaletta dove è salita
per toccare i piedi degli dei
precipiterà giù
alla prima occasione
quando il sole troverà nuova e calda attenzione
una terza, quarta stella vera o di cartone
appena più convincente
della postulante nuova fiammante.
Alla Stella dispiace un po’
riparte, prende le distanze
monca di un finale da fiaba
all’altezza del sogno.
“Ho visto cose che voi umani”.
Non chiedeva di vedere
la disfatta calante
di un sole perso e abbacinato
da qualunque orizzonte.
Sospira, riprende il cielo.