
Ho visto “Le otto montagne” due sere fa, e come mi è accaduto per pochissimi film (successe con “Le onde del destino”, ricordo, e con “Before the rain”) non ha smesso di lavorare dentro di me. Non è solo per la lunghezza della proiezione (2 ore e mezzo) che si impongono così tanti temi alla nostra attenzione di lettori/spettatori. Lettori perché questo film, in modo del tutto misterioso, è un libro. Non perché gli sceneggiatori abbiano esagerato con la voce narrante, che solo di rado inserisce, quasi sempre senza modificarli (ho controllato oggi), brevi brani del testo di Cognetti. È un libro perché questa sceneggiatura funziona, lascia spazio a chi guarda (contempla) la pellicola perché entri in risonanza e ri-crei le proprie immagini, non mostra sbavature, avanza con lentezza e poetica coerenza. I dialoghi sono ridotti.
A chi osserva è affidata, a volte, la responsabilità del dipanarsi di una trama in cui un bambino diventa adolescente solo con un cambio rapidissimo d’inquadratura. Parlano con prepotenza silenziosa gli oggetti, gli arredi delle case dei borghi semiabbandonati, i paesaggi, parla la montagna, nel ripetersi innamorato di inquadrature di una fotografia stupendamente bella (del fantastico Rubens Impens) di sentieri, di sassi, di cime, di pezzi di case e tetti. Le case, sono centrali. C’è la casa di Torino, la casa essenziale affittata per l’estate in montagna, fino ad arrivare a una dimora ancora più sobria, archetipale e simbolica come un tempio, la casa che costruiscono i due amici, che ricompone una separazione forzata.
La narrazione di Cognetti è rispettata, anche se a mio parere andava citata anche en passant la storia della tragica amicizia del padre di Pietro con il cugino della moglie, che come accade nelle grandi storie è sintomo e prefigurazione di ciò che verrà; forse giustificherebbe gli attacchi d’ira frequenti e logoranti del padre del protagonista che per altri versi si fa amare e rispettare.
Il testo del libro/film è attento a ciò che si ripete, cerca il doppio misterioso e perturbante. Sottolinea che Pietro si innamora di una donna che fa lo stesso lavoro di sua madre. Sua madre e suo padre hanno un solo figlio, ma in realtà ne hanno due. I familiari di Pietro hanno almeno due vite, quella della città che frastorna, distrae e che per Pietro bambino “potrebbe rovinare il suo amico” e quella della montagna aspra che invece riporta alla purezza delle intenzioni, all’amicizia appunto, all’amore, oltre che alla disperazione e alla solitudine più assoluta, accecante e fredda come la neve.
Due, sempre due. I due amici si dividono le mansioni esistenziali: uno è quello che viaggia, l’altro è quello che resta, che aspetta. Uno, secondo il protagonista, è quello più adatto a relazionarsi con suo padre, l’altro no. Allo stesso modo le montagne sono chiamate in due modi, c’è chi nomina ogni cima, ogni luogo, persino un lago con precisione e chi invece di montagne e ampio paesaggio ne fa un solo nome, “Grenon”. Opposizioni. Contrasti. Nella famiglia di Pietro (che si chiama Berio, per Bruno) il padre è preda dell’ira, la madre cerca di riconciliare le persone di famiglia, estendendo la sua azione amorevole a coloro che entrano nel suo raggio d’azione.
Intanto questo film è per prima cosa la storia di un’amicizia baciata dagli dei, la philìa per i greci, da tutti ricercata e raramente trovata, che va oltre le distanze sociali, geografiche, caratteriali. Racconta anche di un’evoluzione spirituale, con sobrietà, evitando schematismi, riuscendo a non sentenziare mai.
Quando Pietro racconta a Bruno delle otto montagne contrapposte alla montagna più alta da raggiungere il momento è sdrammatizzato da risate, che lo alleggeriscono, rendendolo più convincente.
L’opera è costruita intorno alla problematica del percorso di un aspirante scrittore. La tematica è suggerita, mai sottolineata con pesantezza. Guardiamo ciò che accade nello specchio con cui Perseo affronta Medusa. “Si parla d’altro per parlar della corona”. Il protagonista, infatti, alter ego di Cognetti, si vede solo per pochi secondi battere un testo a un computer, e si accenna a un suo libro con poche battute. In realtà il film è basato, in fondo, sulla difficoltà che esiste quando si desidera svincolarsi da convenzioni, strutture familiari troppo chiuse, persino da paesaggi che ci nutrono e ci soffocano per arrivare alla consapevolezza di poter battezzare e benedire il proprio destino.
Ciò tenta di farlo anche Bruno, che come Pietro si svincola dal suo destino; lui, in particolare, dal cappio esistenziale che gli ha imposto un padre manesco e insensibile, che gli ha negato la possibilità di studiare con i generosi borghesi arrivati dalla grande città (Torino nel film, Milano nel libro). Prova a seguire – perfino ottusamente, alla fine, la voce dei suoi antenati, antieroe in una società che non permette più di sopravvivere nella durezza dei monti con quello che si produce e si vende. E qui, come accade nelle grandi narrazioni, in controluce ecco la critica a toni pacati ma fermi di una società che non si preoccupa più delle “piccole patrie”, che passa cieca come un carrarmato sulle piccole comunità già disintegrate dalla fuga dei residenti verso i grandi centri.
Ben trattato è il rapporto fra il protagonista e il padre, rifiutato e amato con forza, invece, poi nell’assenza. Pietro lo ricerca su mappe della memoria che hanno consistenza fisica, sono le carte topografiche della montagna scalata. Lo decifra seguendo le linee del pennarello con cui l’uomo segnava i sentieri fatti con il figlio o con Bruno. Lo cerca sui fogli consumati dei libri dell’ospite presso i rifugi.
Tutto in questo film (come nel libro), anche l’argomento più denso e tragico è trattato in un modo sapiente e stilisticamente raffinato. Noi spettatori camminiamo con gli attori sugli stretti sentieri fra gli abissi, proviamo a saltare un crepaccio che monta su un ghiacciaio con il mal di montagna, soffriamo per non avere saputo comunicare con chi abbiamo amato, e per non averlo saputo, forse, salvare. Grandissimo film (da un grandissimo libro).