Il paese a cui tornare

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Se abiti in un paese
hai un paese a cui tornare

se te ne dovessi andare
fra strade sconnesse, grandi capitelli sostenuti da niente
la luce selvaggia, l’orizzonte disegnato a matita.
Passi lunghi e posati
maniche arrotolate
il cappello sulle ventitré.

Per molti anni non sapresti quanto ti manca
il paese.
Riempiresti ogni vaso di fiori, ogni scaffale di libri
giocheresti il gioco del ti conosco, e ti riconosco.

Molti bar dai tavolini lucidi, dal gestore distratto o troppo invadente
insegne a neon, sorprese che allargano i pensieri
un parrucchiere nuovo; molte nuove occasioni.

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Non potresti prevedere quella fitta al petto, un giovedì qualsiasi
quando il tuo paese si farà avanti all’improvviso
gonfio di pioggia, di premonizioni
di odori pazzi di fieno tagliato, e riposto in mucchi ordinati.

Si toglierà la giacca venendoti incontro, con gli occhi lucidi
promettendo un abbraccio, vibrando di un sorriso astrale.

Non farai in tempo a sfiorarlo, a spiegarti: sarai già altrove,
tornata al tuo paese senza scarpe né borsa
una stella cometa
un semaforo interrotto
una bevanda ghiacciata sorbita in fretta.

Tanto amore nel viso chiuso,
lo splendore di un bacio non dato
il biglietto girato con un nome annotato.

 

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La bambina che ti aspettava con le braccia
già aperte, e stringeva il tuo corpo per sempre.
Anche quello era stato un paese.

La strada non intrapresa. La morte del padre.

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Bivi, biforcazioni, strade lunghe con curve che nascondono un prato, o terra arsa:
la strada non intrapresa

se il padre non fosse morto per l’amianto di quel tribunale
se la sorella non si fosse ammalata per il dolore,
se la diaspora familiare non fosse avvenuta

nel ventre avrei sofferto di una mancanza di slancio
non mi sarei allenata all’attitudine di saltare fuori
dallo sfascio di ogni certezza
dagli effetti di una tempesta.

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Mio padre avrebbe, in silenzio,
mantenuto in casa il suo calmo regno
presieduto alla gradualità del compiersi
di ogni processo che ci riguardasse.

La sorella minore avrebbe terminato il corso di laurea, aperto lo studio da psicologa.
Avrebbe avuto due figli con un marito, in una casa ordinaria ma stabile.

L’altra sorella avrebbe insegnato. Forse, Francesco sarebbe nato ugualmente. O forse, no.

Mia madre non avrebbe navigato nella vedovanza precoce, né si sarebbe formata con le letture, confrontandosi per evolversi insieme alla figlia.

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La strada non intrapresa, mio padre con i capelli invecchiati, il viso segnato ma bello,
a tenere banco a capotavola, la famiglia riunita, i miei cugini vicini come due figli.

Il nostro destino partorito dalla mancanza più grande, dalla morte del re.
Non conosciamo la strada non intrapresa.

Alice non sarebbe mai nata. La fata in realtà si rivela
l’ombra rovesciata del nonno mancante.
Una luce accesa al posto di un’altra
che cadde.

I giorni sporcati di pece, neri neri

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Il gomitolo assolve al suo lavoro, e la donna anziana sferruzza, sferruzza

la rete dei destini, si srotola, si inarca per diventare
una coperta – arazzo

dai colori intensi, tersi, dove ti puoi specchiare per riconoscerti, per completare il disegno.

Invece, un giorno, il filo si aggroviglia.

Le parole partono dal petto come frecce per trasformarsi in serpenti.
L’amore è ucciso, appena nato, appena ritornato.

Le parole appuntite feriscono la felicità.  Cade polvere da quelle ferite.

Sulla testa delle persone vicine, che remano sul loro battello; ne sono travolte per vicinanza.

Nero petrolio scende sulla casa familiare. Tristezza ritorta come bottoni rotti.

Melodia funebre nella testa. E tutto per una manciata di parole.

Parole d’odio al posto degli abbracci. Materiale radioattivo sul giardino fiorito.

La vita scorre in altri luoghi.

E tu ti fai divorare dal buio.
E non ne fai parte.

 

 

 

 

Alice e gli angeli

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Alice Sophia, 7 anni, sta guardando Benigni alla televisione. E’ sconcertata perchè l’ha sempre visto in veste comica, e invece lui sta leggendo la Divina Commedia.
– Però mamma (dice con sussiego) allora è proprio bravo, eh?

La mamma corre a prendere i tre grandi volumi della Divina Commedia, le mostra le figure, le spiega la struttura del poema. Alice guarda tutto con molto interesse e commenta:

– Sì, sì, ho capito, all’Inferno ci vanno i cattivi e non ne escono più, al Purgatorio ci vanno quelli così così, al Paradiso quelli buonissimi…

– Tu dove vuoi andare, Alice, quando muori?
– Ma naturalmente al Paradiso.

Però..mamma…pensandoci bene non ne sono sicura…(ha un’aria preoccupata)

tutti quegli angeli mi fanno un pò paura….

(2006)

Alice e i leoncini

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Alice Sophia, sette anni, ha preso due leoncini ovviamente di pelouche, li ha disposti sul bordo del tavolo.

Ha girato le sedie con alti schienali verso quel bordo di tavolo. Gli schienali sono due lapidi.

Ha disegnato due ritratti di leoni…i genitori dei leoncini.

Le foto dei defunti, presto incollate sulle lapidi.

Su ogni lapide ha appeso un ciondolo.

Poi ha spiegato alla sua mamma:

– I leoncini pregano davanti alle tombe.
I loro genitori sono morti, ma le loro carcasse non si trovano. La giungla le ha disfatte!

Ma non importano i corpi- e agita qui la manina, per sottolineare quanto poco conti un cadavere-

– Contano gli oggetti che per i due genitori di leoncini erano più importanti.

Contano gli oggetti che uno lascia, non i corpi.

Conta quello che uno lascia.

(2006)

Una poesia di Alice Sophia, otto anni e mezzo

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La mia vita

di Alice (ottobre 2007)

Ogni mattina,
mi sveglio presto,
faccio colazione,
vado a scuola,
torno a casa,
mangio,
scrivo,
piango,
mi sfogo,
questa è la mia vita,
che fra tanto finirà,
sarà un brutto giorno per me,
ma ritroverò casa mia,
lei è con Dio,

al suo fianco c’è l’amore,
che infatti è suo fratello,
al suo fianco c’è l’amicizia,
che infatti è sua figlia,
al suo fianco c’è la pace,
che infatti è sua madre,
….e
un bel giorno ci sarò anch’io,

una sua alleata
un suo angelo
come gli altri
che lo erano
e lo saranno
prima di me.

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