Il cielo sopra Berlino. Annotazioni

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Cassiel: Sulle colline, un vecchio leggeva l’Odissea a un bambino, e il piccolo uditore smise di socchiudere gli occhi. E tu cos’hai da raccontare?
Damiel: Una passante, che sotto la pioggia chiuse di colpo l’ombrello, lasciandosi bagnare tutta. Ah, ecco: uno scolaro, che descriveva al suo maestro come una felce nasce dalla terra. Ha fatto stupire il maestro. Una cieca, che quando si accorse di me si mise a tastare l’orologio. Sì, è magnifico vivere di solo spirito e giorno dopo giorno testimoniare alla gente, per l’eternità, soltanto ciò che è spirituale. Ma a volte la mia eterna esistenza spirituale mi pesa, e allora non vorrei più fluttuare così in eterno, vorrei sentire un peso dentro di me, che mi levi quest’infinitezza, legandomi in qualche modo alla terra. A ogni passo, a ogni colpo di vento, vorrei poter dire: “ora”, “ora” e “ora”. E non più: “da sempre”, “in eterno”. Per esempio, non so: sedersi al tavolo da gioco ed essere salutato, anche solo con un cenno. Ogni volta che noi abbiamo fatto qualcosa, era solo per finta.

Wim Wenders tornò a Berlino, doveva aspettare per girare “Fino alla fine del mondo”, non smetteva di pensare agli angeli. Sul suo taccuino annotava tutto, non sapeva ancora che film voleva costruire, girovagava.
Intanto, rifletteva sull’Angelo della storia di Benjamin. Mentre prendeva la colazione allo Schwarzes Cafè gli appariva, volteggiando fra calici e bottiglie,  l’ Angelo della morte” di Paul Klee. Non parliamo di Rilke: Rilke sembra intendersene di angeli più di ogni altro poeta, e Wenders ne conosceva quasi a memoria i versi.

 

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Come dovevano vestirsi, i suoi angeli? Prima cominciò a ipotizzare con gli altri della troupe armature e ali filosofiche, poi comprese che avrebbero dovuto  indossare soltanto cappotti di taglio classico. Nessun effetto speciale: lo escluse, avrebbero camminato fra gli attori che li avrebbero semplicemente ignorati.

Una mattina decise che avrebbero dovuto a tutti i costi girare una scena del film in biblioteca: riempirla di lettori, e di angeli vigilanti in stato di alta concentrazione, che ascoltavano lo srotolarsi delle parole dalle pagine. Nella Staatsbibliothek i libri sembravano cantare tutti insieme.
Ai pensieri degli umani che gli angeli sorvegliavano in ogni luogo della città, accostò le parole lavorate come colatura di oro fino di Peter Handke.

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Rilke, Wenders, Handke, Benjamin, Klee. E tanti altri.
Damiel, Cassiel, Marion, Homer.
Bruno Ganz, Otto Sander, Solveig Dommartin, Curt Bois.
Peter Falk recita se stesso. Nick Cave.
Marion, la compagna di Wenders, si lanciò per l’occasione nell’apprendimento del mestiere di acrobata. Volò alto anche lei.

Fu difficile ottenere il permesso di entrare in biblioteca. Ma girare vicino al muro era impossibile.
Wenders ricostruì un muro alternativo, e ai piedi di quel simbolo così denso, carico, girò la scena in cui l’angelo lascia la sua condizione di perfezione, e si trasforma in umano per sentire le sensazioni di freddo e beatitudine sulla pelle.

Rischiando di provare dolore.

Scegliendo ciò che molti chiamano amore.

Il cliente di Asghar Farhadi. Qualche annotazione

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Come Arthur Miller in Morte di un commesso viaggiatore, in questo film il regista, attraverso le vicende di persone comuni apre,scenari di analisi antropologica, economica, sociale. Anche Miller, come Farhadi, racconta di una società che cambia rapidamente, conservando molte contraddizioni fra aspetti di modernità e residui reazionari.

Come Arthur Miller Ashgar Farhadi racconta storie semplici per narrare una parabola morale. E lo fa lasciando lo spettatore nella suspense ben dosata delle verità da scoprire, rivelate gradualmente.

Un incipit forte: l’uscita frettolosa di molte persone da un palazzo che sta per crollare, una ruspa inquietante che forse ne mina le fondamenta.
In un’altra casa, che dovrebbe essere sicura, una porta lasciata aperta con noncuranza da Raana, la protagonista, metterà a rischio la vita familiare, minaccerà la riuscita della piàce teatrale che i due coniugi stanno mettendo in scena con collaboratori e amici.

La crepa nei vetri, la porta lasciata aperta, la porta chiusa dell’ex affittuaria dell’appartamento. La pioggia che danneggia i mobili di una donna che non comparirà mai nel film, ma dalla cui esistenza derivano delle conseguenze che sono alla base della storia narrata. Un cellulare, le chiavi e le banconote dimenticate. I maccheroni da buttare, perchè comprati con soldi sporchi. Piccoli oggetti, piccole situazioni aprono falle dappertutto, e mostrano la natura dei personaggi sotto la facciata calma delle vite ordinarie.

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Così Emad, il professore, esponente della giovane borghesia di Teheran moderna e liberale, uomo di teatro, amante dei libri, il cui lavoro è elevare le coscienze di ragazzi, si rivela in realtà un “conservatore”e, dopo la messa in pericolo dall’esterno del suo piccolo mondo, mostra un desiderio di vendetta inarrestabile, e poca comprensione ed empatia per il disagio della sua compagna.

Il regista, pur girando quasi tutto in interni: il palco dello spettacolo teatrale, le due case della coppia, il negozio del pane, un ospedale; e poco in esterna, riesce a darci una visione ampia della vita in Iran soprattutto attraverso lo sguardo dei vicini di casa; un vicino dà parere favorevole alla mancata denuncia della donna all’aggressione subita, alludendo al fatto che. forse, la donna non sarebbe creduta. Ha lasciato lei la porta aperta, in fondo. Sembra dire: non è comportamento da donna perbene.
Qualcuno dice che vorrebbe dare una lezione all’uomo, se si presentasse.
Si mette in rilievo, per tutto il tempo, il dissidio fra maschera sociale e natura umana nascosta sotto, feroce, o meschina, o puritana che sia.
Non è casuale che Raana, prima di fare la famosa doccia, si tolga il trucco teatrale pesante dal viso.

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Anche l’aggressore rischia di crollare soprattutto perchè teme che la sua famiglia scoprirà di cosa è capace; ha il terrore di rompere il patto delle convenzioni, se si scoprisse che ha agito seguendo “una tentazione”.

Con poche battute frettolose, senza insistere sull’argomento, il regista ci dà notizia delle censure operate dalle autorità sulla pièce teatrale.
Poche battute, ancora una breve e forte pennellata che descrive cosa sia l’Iran oggi.

Alcune annotazioni su “Un padre, una figlia”di Cristian Mungiu

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“Un padre, una figlia”, è l’ultimo lavoro cinematografico di Cristian Mungiu. L’architettura del film di Mungiu è un capolavoro. La sua regia è sommessa, delicata, in apparenza – a un prima superficiale visione – analitica, incapace di essere e di fare sintesi. Lunghi dialoghi pacati, lunghe azioni; il regista non ha nessuna fretta di fare scorrere la storia, raccontando fin nei dettagli la quotidianità in primis di una famiglia, quella del protagonista assoluto del film, il medico Romeo Aldea, che veste i panni dell’eroe (e di antieroe, ma in questo film è saggio evitare i giudizi tranchant) della storia.

Una ventennale vita familiare sostenuta da abitudini, sentimenti e anche ipocrisie e gesti di facciata, ma comunque solida e stabile, comincia ad essere afflitta da una lenta e inarrestabile instabilità.

E’ stato raggiunto, da qualche parte, il famoso punto di rottura; preannunciato anche simbolicamente dall’arrivo dal “mondo di fuori” di un sasso che spacca la finestra dell’appartamento dove abita la famiglia. Nessuno scoprirà chi sia l’autore di questo e di altri gesti vandalici. Ci viene in mente “Niente da nascondere (Caché), di Michael Haneke” e le videocassette ricevute in forma anonima da un Auteuil straordinario (in modo bizzarro, durante il film, ho pensato che oltre allo straordinario attore Adrian Titieni anche Auteuil avrebbe potuto interpretare questo ruolo di padre, marito, amante, medico, con il suo viso contraddittorio, adatto a tutte le sfumature della perplessità, del disappunto, della difficoltà a comunicare nelle relazioni interpersonali).

Mi piace il modo che ha quest’opera di trascrivere e portare sulla pellicola il non detto della trama, che non viene trattato se non per brevi accenni, come la storia di Romeo e di Magda, la moglie; di quando, nel 91, hanno deciso di tornare dall’Europa tentando, in un momento storico cruciale per la Romania e per l’Europa dell’Est in generale, di cambiare le cose e dare il loro contributo attivo al paese dopo la caduta del regime comunista.

Brecce di senso si aprono dappertutto e arrivano allo spettatore subito e anche molto dopo avere visto il film. Immagini apparentemente ordinarie sono usate come forti simboli: ad esempio, l’inquadratura della telecamera su scaffali con libri ammassati e impolverati. I libri hanno l’aria di essere una sorta di residuato bellico; sembrano oggetti antiquati; avevano avuto, un tempo, la pretesa di esprimere una cultura in grado di modificare il corso della storia. Invece, la loro funzione si è rivelata inadeguata e quasi obsoleta rispetto al cammino veloce di una società che si disgrega.

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All’immagine della biblioteca si collega il profondo senso di fallimento di Magda che, alla fine, dice, è riuscita a “essere solo una bibliotecaria”. La classe intellettuale avrebbe voluto cambiare il mondo; non c’è riuscita; ma ecco che Romeo, il medico piccolo- borghese, investe delle sue ultime speranze e di un’aspettativa estrema il destino di sua figlia Eliza, che vorrebbe fare emancipare al posto suo e della moglie, e fare arrivare in Europa, vista come posto mitico, in cui studiare in una scuola prestigiosa  è ancora per le nuove generazioni un mezzo d’elevazione sociale e dell’identità, oltre che fonte di benessere economico.

L’esistenza di Romeo, durante il film, subisce una lenta disgregazione, una metamorfosi angosciante. Un passo dopo l’altro, la sua identità e la sua immagine di uomo ineccepibile vengono messe in discussione, in fondo, soprattutto dalle sue stesse ombre, in risalto su un contesto sociale difficile come quello della Romania di oggi. Microstoria e macrostoria nel film si rovesciano la prima dentro la seconda continuamente.

Mentre nella parte iniziale della narrazione è evidente come il protagonista sia abituato a tenere tutto il suo piccolo mondo sotto un ferreo controllo fatto di volontà e di dedizione alle sue cause personali, alla fine molti segni dimostrano la vanità di questo suo sogno di realizzazione del proprio intento a tutti i costi. La realtà e gli altri attori della scena interagiscono con lui, che lo voglia o meno.

Nella prima parte del film l’occhio la mdp, dall’interno dell’auto, guarda spesso il parabrezza dell’auto di Romeo che la guida per la città; come se l’auto fosse un’altra corazza protettiva che l’uomo sia riuscito a garantire a se stesso e alla sua famiglia fino a quel momento; evitando di parlare alla moglie di quanto il loro matrimonio non esista più; evitando di parlare in modo chiaro all’amante di quanto non voglia impegnarsi in quella relazione secondaria rispetto la prima famiglia, e così via.  Il parabrezza, come la finestra di casa, verrà spaccato da un sasso, e l’uomo, verso la fine del film vagherà a piedi, sempre più inquieto, perdendosi nella periferia della città, inseguendo pensieri di rivalsa verso l’aggressore della figlia che sembra divenire l’uomo nero nascosto nelle maglie dell’inconscio, una figura da incubo, che a tratti perde di consistenza e, come accade per gli altri aspetti del film, diventa anche qualcosa di vasto: l’elemento di delinquenza diffusa in una Romania un po’ allo sbando.

Comunque, come il padre nella famiglia di “Teorema” di Pier Paolo Pasolini, l’armatura sociale e psicologica di Romeo viene messa in discussione. La figura di Romeo ricorda anche il viaggio infernale del protagonista, padre anch’esso della sua Lucy, nel romanzo “Vergogna”, di  Coetzee. Anche in “Un padre, una figlia” il protagonista compie un viaggio esistenziale profondo e doloroso, allontanandosi dalla strada battuta; non in modo così netto come accade nel film di Pasolini o nel romanzo di Coetzee; in modo più lieve, come se tutto accadesse in sordina.

Molti altri elementi della scrittura sono sfumati e rompono il dipanarsi colloquiale e placido delle cose che accadono a Romeo e agli altri protagonisti. Il figlio di Sandra, l’amante di Romeo, balza nella scena per due volte indossando sul viso una maschera che lo fa assomigliare a una straniante e stridente figura mitologica; la sua presenza passa nel film come un monito.

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Porta la maschera come tutte le cose o le persone inconoscibili e deformate dallo sguardo (dalla mancanza di sguardo) di chi non sa e non vuole coglierle, esprime il rifiuto di Romeo a impegnarsi nella relazione con sua madre; la mal disposizione dell’uomo ad accogliere un figlio che non sia quello della prima famiglia che ha costruito. Infatti, solo quando la verità della relazione extraconiugale emerge, e quando Sandra decide di abortire il figlio di Romeo, il ragazzino compare senza maschera, come se ciò seguisse  l’accettazione del protagonista a prendersi il carico di nuove responsabilità e di nuovi legami; forse – ma resta una supposizione da parte nostra –  per una sorta di scambio non pattuito verbalmente con il sacrificio della nuova maternità frustrata di Sandra.

Questa è la qualità notevolissima del film: lasciare molti discorsi aperti. Ci chiederemo, e non avremo risposta, se il ragazzo di Eliza ha davvero visto l’aggressione e non si è fermato. Ci chiederemo se Sandra abbia davvero abortito.  Come sia accaduto che Eliza abbia trovato il padre a casa di Sandra quando ne ha avuto bisogno. Addirittura, non sapremo se l’esame, Eliza l’avrà davvero superato.

Ma i dettagli che per il regista contano sono svelati; come la decisione che prende la figlia, con consapevolezza, rispetto il modo di compilare i test dell’esame di stato.

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Il ritorno di Andrey Zvyagintsev (Russia, 2003)

 

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Il ritorno. In spagnolo el regreso. E tornando all’italiano, viene in mente la parola Regressione.

Sentiamo il bisogno di arginare questo film perché sfugge da tutte le parti, ri-visto dopo qualche anno con maggiore piacere, ma non è piacere, è ammissione un pò controversa sulla poltrona accanto alla propria della presenza del perturbante; è un costante, strisciante accompagnamento di violoncello- che ascoltiamo solo noi.

Intanto la pellicola è virata al blu.

Intanto la fotografia non è serva, ma padrona.
Ma sotto lo strato del tapis roulant magnifico delle scene elargite, le luci usate con sapienza (non è stato un colpo di fortuna il Leone d’oro nel 2003) ruotano molte opere pittoriche.
La prima, facile da associare per riproduzione fedele, non iperealistica (con lenzuolo, che sorpresa- blu), il Cristo morto del Mantegna che torna, più sfuggente, in uno degli ultimi fotogrammi.

La nonna con la mano sul tavolo è ‘ritratto di vecchia’ ripresa quei secondi in più sufficienti a scolpirla.

Le torri dechirichiane sono doppie come il cristo citato.
Le torri dei tarocchi, non scevre di presagi neri. In una si vede la luna bionda, l’altra ospita il sole che si frantuma. Come nei simboli doppi dei sogni.

Il Padre non è cattivo o buono. Qui agiamo prima di distinzioni morali e anche etiche.
Qui si è obbligati a chiamare in causa, volenti o nolenti, il dio Cronos.
La scatola non verrà mai aperta e così mai si conoscerà a fondo quell’uomo ruvido,”analfabeta emotivo”,che è solo arrivato e poi tornato, e che si riesce a chiamare ‘papà’, come nel racconto della Warton ripreso poi da Stephen King in It- soltanto troppo tardi.

– Mamma, da dove arriva?
– E’ arrivato. Dormi.
Aveva risposto la madre nella sottana di seta, prima di andarsi a stendere accanto allo sconosciuto.
Ci era venuto in mente- a tratti- Tarkovskij. Il primo Bertolucci. Dopo queste parole, l’ospite di Teorema.

 

La morte sconcertante subito dopo le riprese- nel lago Ladoga che era stato scenografia- dell?attore adolescente che recita come fratello maggiore allunga altre ombre azzurre sul film.
Bisogna operare un grande sforzo di non immaginazione per non inscriverla nella trama del film, altrimenti si trasforma quest’opera insieme realistica e completamente astratta in un’entità accecante che cerca altri sacrifici. Umani.
E vi è una lunga tradizione planetaria di morti maledette sui set dei film.
Invece, non fu così: fu solo uno spiacevole incidente.

Il mio migliore amico di Leconte

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Chi si aspetta un dramma o una ‘seria commedia’, resta deluso da Il mio miglior amico di Patrice Leconte.

Questo film infatti è soltanto una strana favola.
Dialoghetti irreali perché tirati, sfoltiti fino all’esasperazione, fino ad appiattirli.
Sketch improbabili nella loro liquida assurdità.
L’incontro comico e tragico- alla conferenza -con l’occhialuto.
La ricerca del manuale, il breve colloquio con la vedova del mercante d’arte, o l’incontro con il compagno di scuola.
Il tutto è poco realistico; danno l’impressione, testo e immagine, a tratti, d’essere montati come un fumetto.

Per esigenze di chiarezza di messaggio; perché la lezione morale passi limpida.

La favola.
Non è dettaglio da niente che Auteuil-Francois, mentre si interessa ai vecchi oggetti di Bruno conservati nella sua stanza da adolescente, incappi nella frase detta al principe dalla volpe per spiegargli cosa sia l’amicizia. Le petit prince in Francia, ma anche in Italia, ha una diffusione più che capillare, più che popolare.

Diffusione che ce l’ha reso, ammettiamo, un po’ stucchevole: ma funziona, la parabola-libretto inventata dall’aviatore che si schiantò a quarant’anni nella nebbia, non prima di vergare poche parole di saggezza.

Leggero nei suoi temi (come suo solito) pesanti come il marmo tombale e corrosivi del petto (il fiume di pietra schiumante che coprì la Parrucchiera nel ’90), Leconte ragiona sull’individualismo e sulla fragilità/necessarietà dei rapporti amicali.

La socia di Francois è una Fata Turchina con indice predicatorio.
Una delle balene- Leviatan è la trave nell’occhio che oscura la vista. Gli occhi di questa sorta di Scrooge sono incrostati completamente d’oggetti antichi.

Il film non affida all’amore il calor di fucina utile ad arroventare la corazza di Auteuil.
Affida il guanto della sfida alla naiveté arresa di Bruno, che saluta la gente per strada, logorroico e un po’ ottuso, al punto che Francois al primo incontro con “l’amico” lascia il taxi, esasperato(altro archetipo narrativo, la fuga iniziale nelle narrazioni dell’eroe dall’inaspettato, l’incapacità iniziale di integrarlo in un vissuto già strutturato, in equilibrio)

Le piccole cose che Leconte ama filmare, anche qui le ritrae cesellandole e accarezzandole.

La telecamera ha dei sussulti, e quando Auteuil apre- in qualche momento- la comprensione, gli si avvicina con piccoli balzi, irrigidendosi e inquadrandolo, quasi in fermo- immagine.

Piccole sentenze. Le verità nascoste in simboli così evidenti da esser quasi non credibili: un enorme fragilissimo lacrimatoio dove sono dipinti gli amici del mito, Achille e Patroclo, addirittura.
Come emularli? Il goffo Francois fatica nelle prove dell’amicizia, di cui non conosce l’alfabeto.

Il mago Auteuil (o sarà stata pregnante la guida lecontiana? Saperlo!) ci riserva qui scatti continui e stranianti sui piani del viso schizzato da un grande cubista.

Auteuil rifà qui Un cuore in inverno (uno degli sceneggiatori di questo film disegnò quel film sublime) ma anche l’Avversario, anche Caché in altro modo e altri ruoli in cui si è non banalmente ma poeticamente – diamine- specializzato con una diversa interpretazione gestuale.

Sorrisetti sbagliati. Mezzi gesti tagliati male. Occhi strabuzzati.
Il cuore d’inverno si assottiglia, diventa rivolo freddo, si presenta vicino, si rivela più familiare. Quasi possiamo sfiorare quelle dita lunghe e bianche di uomo restio a guardare altro da sé.
L’amante non mal trattata ma poco trattata era l’amica comoda e complice del protagonista di cuore d’inverno.

Ma non è l’amore che qui aumenta la temperatura, abbiamo detto, come siamo abituati a vedere nelle commedie francesi, americane tradizionali.

E’ l’epifania dell’amico, contrapposto, così diverso; Il piccolo principe non incontrò un altro principe, non si guardò languido nello stagno; inciampò, sbadato, in una piccola, ispida, volpe.

Ponyo sulla scogliera

(23 novembre 2009)

immagine-tratta-da-ponyo-sulla-scogliera-2008Non è la prima volta che Hayao Miyazaki incentra il suo racconto su un viaggio iniziatico di una bambina preziosa, leale, pura. E’ evidente che si riferisca a una qualità umana astratta, non a una categoria infantile precisa.

Avevamo seguito la storia della crescita interiore di una bambina ne La città incantata e ne Il castello errante di Howl la trasformazione di un ragazzo da narciso in persona capace di empatizzare con gli altri, di amare ed essere amato.

Come in tutte le fiabe (che Miyazaki cita in abbondanza, infatti) il percorso dell’eroe è lungo e frastagliato. I protagonisti hanno difficoltà a comunicare fra di loro, come accade per la madre di Sosuke con un marito sempre in mare. Anche i genitori mitologici di Ponyo sono distanti, se pur profondamente connessi. Questo film è dichiaratamente (emerge anche in un dialoghetto fra i genitori divini di Ponyo) un affascinante studio sulla fiaba della Sirenetta, ma si trovano anche concetti psicanalitici complessi che gli adulti in sala possono provare a decodificare.

Intanto, le trasformazioni della bambina in pesce, in semiumana, in umana. Il sonno accompagna queste metamorfosi, come nella migliore tradizione classica (Orlando della Potter si addormentò per molti giorni prima di trasformarsi in donna). E ancora, affiorano profonde tematiche dell’inconscio, rimandi a possibili rapporti della bambina con il paterno, evidenti nella scena in cui il mago padre fa regredire la figlia, le interrompe la crescita.

Anche il mare è rappresentato come splendido e sereno oppure come territorio oscuro e minaccioso delle forze dell’Es.

Se il mago del mare si è trasformato in uomo pesce per seguire la dea dei mari, la figlia dei due farà il percorso a ritroso. E’ esplicito un riferimento alla rottura del patto fra uomo e natura, infatti il mago desidererebbe eliminare la specie umana corruttrice del pianeta; l’intervento della grande dea è basato sulla compassione, e sull’idea di fare sposare l’umano con l’animale, di fare riconciliare questi elementi in opposizione. Occorrono per consentire questa unione umani dalla mentalità avanzata come la madre di Sosuke che accoglie e nutre un pesce magico senza rimanere chiusa nel recinto della razionalità, che accoglie la magia nell’ordito della propria giornata, che non ha paura della furia degli elementi.

Molto presente, come in altri film, l’elemento cibo. In particolare, la bimbapesce, durante una scena molto lunga, che sembra quasi non indispensabile alla trama incontra la maternità umana, nutre una donna che darà poi il latte al suo neonato.

Comprende così i cicli alimentari e affettivi che mai ha potuto conoscere, essendo nata da una dea e un semidio.

La cinica signora anziana dell’ospizio incarna la diffidenza, le paure delle masse, che rischiano di non fare ricompattare i mondi e di ostacolare una grande riconciliazione (che ricorda tratti dell’opera di Philip Pulmann).

Un’altra favola che balza evidente nella tramatura sottesa a questo bel film e’ quella detta della donna scheletro, in cui un uomo tira su le ossa di una donna, viene spaventato dal carico di dolore che portano ma con la compassione e l’accettazione le restituisce un corpo.

Anche se il regista giapponese ha scritto per questo film soprattutto di due bambini, si parla dell’Amore fra esseri umani di qualsiasi età. E’ l’Amore che può ricomporre il dissidio dei mondi diversi.

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