Mio padre

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Sei la matrice di ogni mio amore
il punto di ritorno
il fantasma senza mani
la cravatta a righe:
un paio di occhiali rimasti senza padrone.
Il crocifisso d’oro
sul torace troppo magro.
Una commemorazione senza fine
la bara vuota
la porta chiusa.
Sei la voce, l’unica che conta
la figura che univa i commensali
il natale felice, la luce accesa nelle stanze
sei anche l’autore del buio
che venne dopo la partenza
sei l’asso di coppe e il re di denari.
Eri lo sguardo che mi dava fierezza
restituzione del mio valore.
Mi incoronavi senza una parola.
Sei la matrice di ogni mio amore.

La mia mamma

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Le generazioni si alternano con passo così lento che, in un mattino di aprile, scopri che tua madre è diventata una donna anziana, di colpo.

Nell’alba di un sonno serale cerchi per casa la sua assenza

‘formichina, formichina, dove sei?’

e non riesci a svegliarti, non prima di averla rivista, in piedi accanto allo scaffale dove riponi le conserve, tonno, riso, pasta, ceci e lenticchie, aurata di luce leggera, sfocata, come se si fosse rivelata a te solo per l’anima di gazzella che ha, in purezza.

Com’è bella tua madre, mi dicono tutti dopo averla incontrata la prima volta, ed è arcano il mistero per cui lei rimane attraente dietro le rughe.

Si supplica la madre di rimanere qui per tutto il tempo possibile, come si chiedeva la mattina prima di andare a scuola, il panino con la nutella.

Non è da tutti avere qualcuno come lei a sorvegliarti l’esistenza anche da lontano. Se si concentra, sa sempre cosa mi accade.

Quando avevo sette anni mi seguiva se mi allontanavo per esplorare le strade accanto al Cesare Battisti senza farsi vedere, per darmi spazio, per farmi provare cosa si sente a camminare da soli.

Infatti ce l’ho fatta, sono qui a curarmi ogni ferita; so uscire dalle trappole; so godere del pranzo che mi preparo con cura.

Finché non mi addormento.
Per sognare la mamma.

Il paese a cui tornare

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Se abiti in un paese
hai un paese a cui tornare

se te ne dovessi andare
fra strade sconnesse, grandi capitelli sostenuti da niente
la luce selvaggia, l’orizzonte disegnato a matita.
Passi lunghi e posati
maniche arrotolate
il cappello sulle ventitré.

Per molti anni non sapresti quanto ti manca
il paese.
Riempiresti ogni vaso di fiori, ogni scaffale di libri
giocheresti il gioco del ti conosco, e ti riconosco.

Molti bar dai tavolini lucidi, dal gestore distratto o troppo invadente
insegne a neon, sorprese che allargano i pensieri
un parrucchiere nuovo; molte nuove occasioni.

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Non potresti prevedere quella fitta al petto, un giovedì qualsiasi
quando il tuo paese si farà avanti all’improvviso
gonfio di pioggia, di premonizioni
di odori pazzi di fieno tagliato, e riposto in mucchi ordinati.

Si toglierà la giacca venendoti incontro, con gli occhi lucidi
promettendo un abbraccio, vibrando di un sorriso astrale.

Non farai in tempo a sfiorarlo, a spiegarti: sarai già altrove,
tornata al tuo paese senza scarpe né borsa
una stella cometa
un semaforo interrotto
una bevanda ghiacciata sorbita in fretta.

Tanto amore nel viso chiuso,
lo splendore di un bacio non dato
il biglietto girato con un nome annotato.

 

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La bambina che ti aspettava con le braccia
già aperte, e stringeva il tuo corpo per sempre.
Anche quello era stato un paese.

La strada non intrapresa. La morte del padre.

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Bivi, biforcazioni, strade lunghe con curve che nascondono un prato, o terra arsa:
la strada non intrapresa

se il padre non fosse morto per l’amianto di quel tribunale
se la sorella non si fosse ammalata per il dolore,
se la diaspora familiare non fosse avvenuta

nel ventre avrei sofferto di una mancanza di slancio
non mi sarei allenata all’attitudine di saltare fuori
dallo sfascio di ogni certezza
dagli effetti di una tempesta.

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Mio padre avrebbe, in silenzio,
mantenuto in casa il suo calmo regno
presieduto alla gradualità del compiersi
di ogni processo che ci riguardasse.

La sorella minore avrebbe terminato il corso di laurea, aperto lo studio da psicologa.
Avrebbe avuto due figli con un marito, in una casa ordinaria ma stabile.

L’altra sorella avrebbe insegnato. Forse, Francesco sarebbe nato ugualmente. O forse, no.

Mia madre non avrebbe navigato nella vedovanza precoce, né si sarebbe formata con le letture, confrontandosi per evolversi insieme alla figlia.

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La strada non intrapresa, mio padre con i capelli invecchiati, il viso segnato ma bello,
a tenere banco a capotavola, la famiglia riunita, i miei cugini vicini come due figli.

Il nostro destino partorito dalla mancanza più grande, dalla morte del re.
Non conosciamo la strada non intrapresa.

Alice non sarebbe mai nata. La fata in realtà si rivela
l’ombra rovesciata del nonno mancante.
Una luce accesa al posto di un’altra
che cadde.

I giorni sporcati di pece, neri neri

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Il gomitolo assolve al suo lavoro, e la donna anziana sferruzza, sferruzza

la rete dei destini, si srotola, si inarca per diventare
una coperta – arazzo

dai colori intensi, tersi, dove ti puoi specchiare per riconoscerti, per completare il disegno.

Invece, un giorno, il filo si aggroviglia.

Le parole partono dal petto come frecce per trasformarsi in serpenti.
L’amore è ucciso, appena nato, appena ritornato.

Le parole appuntite feriscono la felicità.  Cade polvere da quelle ferite.

Sulla testa delle persone vicine, che remano sul loro battello; ne sono travolte per vicinanza.

Nero petrolio scende sulla casa familiare. Tristezza ritorta come bottoni rotti.

Melodia funebre nella testa. E tutto per una manciata di parole.

Parole d’odio al posto degli abbracci. Materiale radioattivo sul giardino fiorito.

La vita scorre in altri luoghi.

E tu ti fai divorare dal buio.
E non ne fai parte.

 

 

 

 

Mi guardano dal bordo del pozzo

 

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Successe, quel giorno.

Ho visto il mondo fare una giravolta, qualcuno tagliare il mazzo di carte.

Tranciò la linea del palmo della mia mano.

Tutti potrebbero giurarlo: non smisi di camminare, portare le dita a sfiorarmi i capelli, aprire la bocca per emettere suoni. Ma non esistevo già più.

Di me era rimasta la figura di cartavelina, e un pallido lenzuolo attorcigliato a legarmi alle sorelle, alla madre.

Dieci anni dopo arrivò lei, come un sogno. Bella come una rosa d’aprile, luminosa, un angelo: la corda si attorcigliò, più spessa, a tenermi allacciata al pianeta.
Ma tutto di me partiva per andare lontano, e anche mia figlia era . in fondo – la foto di un vecchio album, che guardavo ogni istante con nostalgia. Se ci fossi stata. Se fossi stata là con tutti gli altri.

La realtà si sbriciolava ogni giorno come sabbia, oppure era come quando si tenta di abbracciare il mare.

Sono passati gli anni, il fatto era accaduto nel 1989, e intorno ai miei occhi di quindicenne il volto cambiava. Gli uomini che incontravo non capivano che non esistevo, racchiusi nel cerchio della mia risata scura, del gesto abile, seduttivo, mirato
a cercare di proposito. L’abbandono, prima di provarlo ancora.

Anche loro, non sono esistiti. Neppure uno, neppure il primo.

Mia sorella non si è data mai pace. La guerra l’aveva abbattuta, ma con meno forza, ferita, si è sempre rialzata.

Una signora è arrivata, mi guarda dal bordo del pozzo, con mia sorella vicina.

Non posso morire se non torno a esser viva. Mi tocca guarire.

Oltre il pozzo, ricordo che esistono la rete di istanti perfetti, la leggerezza, l’amore incondizionato. I raggi del sole.
La scatola di giochi è intatta nelle mie mani, mi manca la forza di aprirla.

 

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Possiedo già tutto. Ma non sento che accada.

Mi manca mio padre.

 

 

 

Contaminarsi fra noi, fra noi tutti.

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L’anima ha preso questo corpo, allora: guardo il viso allo specchio come se fosse un abito che ho infilato. Mi piace, nè troppo bello nè brutto,
adatto a questa incarnazione.
Flessibile, adatto a molti tipi di avventura.

Occhi profondi, un mare di terminazioni nervose: che incarico gravoso. Lo accettai, allora.

Avrai tutto: ma con molta fatica.

Vivrai come un mendicante. Anche se potresti avere di più.

L’anima è precisa come un ordigno, non sbaglia. Ne sa parecchio, di questa vita e delle precedenti. ma noi ci trasciniamo per le vie del mondo storditi come dopo avere fumato molte boccate di oppio dal narghilè.

Non ci ricordiamo, non sappiamo: inciampiamo senza bisogno di ciottoli o di complicità; ci rialziamo strisciando, o grazie a una mano esitante tesa verso tutta questa inanità.

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A volte cadiamo per dare modo a quella mano di sentirsi importante.

Nel labirinto degli spazzoloni ci contaminiamo, ci sporchiamo del sangue delle altre anime.
Un gioco straordinario.

Stanchi, ci ripariamo dietro qualche angolo, ma la forza della vita ci viene a cercare, prima o poi.
Ridendo.
Rantolando, a volte.

L’amore. Gli sguardi, gli abbracci, la comprensione di parole profonde come pozzi.

Il tradimento, una fitta lancinante nelle ossa che governa anche il pensiero: balbetta tutto di noi.

Ci sporchiamo, ci smussiamo, merce sbattuta dentro il macero della catena di montaggio dell’esistenza.

Ci purifichiamo.
Tutto di me se ne va, nel setaccio.
Non morirò così come sono nata. Ti sfido, nuvolaglia.

 

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Come mi piace, tutto questo. Mi ostino a uscire dai ripari e mi espongo a insolazioni.

La bellezza di ogni momento.

Che rischio, aprire gli argini.

Noi chi siamo?

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Noi siamo con chi usciamo, con chi stiamo, con chi scriviamo. Con chi lottiamo.
La sostanza delle mani, della bocca, la nostra ironia è fatta dalla nervatura delle relazioni, dall’oro liquido dello sguardo di un altro.
Topografia dell’identità: tutti i cartelli girati al contrario.
La mia pelle è fatta dalla somma delle voci degli amici, anche da chi non mi dimenticò, ma mise da parte la regina di picche per giocare con carte dai semi più bassi.

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I capelli sono la corda che mi lega a mia madre.
La mia andatura è mio padre, il mio seno è legato al torace accorto di Alex che levò la lamiera, la mia fronte, se non si corruga, a Pier.
Il mio vestito, se è bianco è annodato con quello di Rossella.
Rossella ha dei fiori secchi di lavanda nel cassetto che mi richiamano, all’ordine delle idee temperate, disarmate.
L’angoliera del cuore è spolverata da Alice, e Francesco vi posa le penne e le matite, cambiando l’ordine degli oggetti ogni giorno.

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Nella foresta del corpo abita una radura oscura, il Maine del dimenticatoio, della tenda degli indiani assalita, forata, i suoni diabolici di creature a caccia di luce.
Fra pancia e gambe, c’è un mobile pieno di libri.
Nei gomiti, la stanza dei coltelli.

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Nei piedi ci sono i miei nonni.
Nei polsi il legame di miele e di pistacchio con un ragazzo.

E’ lecito non pensare ai morti?

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Una volta ho dormito in un bosco da sola, in un sacco a pelo. Quella notte, nella solitudine più completa che ci sia, mi accorsi di non pensare spesso ai miei morti, tranne che a quello eccellente, preminente, che mi ha scavato la vita spezzandola in due, mio padre strappato alla vita dall’amianto del tribunale dove lavorava nel 1989.

Ma gli altri morti giacciono sul fondo del fiume dei ricordi, coperti di sassi.
“Lasciate che i morti seppelliscano i loro morti” recita il Vangelo di Luca.
Abbiamo tutti costruito un principio solido di distrazione, e così non penso ad ogni istante ad Enzo, che mi sussurrò l’anno scorso che si era fatto grande, settant’anni di bellezza e sfida delle regole, prima di cadere in un bar con le braccia aperte come un cristo, lontano da tutti noi.

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Non penso quasi mai a Marco, che sfidò la sua fine con estrema dignità e che consacrò sè e la sua donna all’arte come se vivesse nell’ottocento e non in un tempo che non ama la profondità, la Bellezza.

A zia Nina, la santa, che aveva il cuore di un uccellino e amava nuotare nel mare di Porto Cesareo, ancora sensuale, bella, ad ottant’anni.

E a Vanna, la mia maestra di canto e di vita, che si prese cura di me come una seconda madre?

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La prozia Maria, che accompagnai per tutta la vecchiaia, fin da bambina, tenendola per mano?
Con queste e altre anime ho diviso confidenze e aspirazioni, ho ritagliato dal tempo sculture di significato.
Immagino che, se mi fermassi a pensare a loro riempirei tutte le caselle del tempo che mi resta di dolore, e diventerei di pietra.

Ma la distrazione, è lecita? “Lasciate che i morti seppelliscano i loro morti”.

Credo che ritornerò a conversare con loro, e conservo la sofferenza in cassetti di legno di noce, chiudendoli a chiave, sapendo che ci rivedremo?

 

Una gita a Roca

dolorOran se andò con la bicicletta nell’ora in cui cambiava l’odore del villaggio e la lunga sciarpa di mare davanti al giardino della Villa virava dal turchino al blu.

In casa, le donne si stavano lavando e truccando nel bagno, chiacchierando forte e gesticolando contro le piastrelle rosa. La zia Mante aveva vaporizzato il suo profumo forte e arcigno da una piccola bottiglia addobbata con una specie di vestitino giallo tenue.

La Cugina Lana giocava con zia Mante a dama sul terrazzo, accanto al dondolo;

Zio Boetius disputava una partita a scopone sotto gli alberi di limone con Nonno Silvano, Zio Leon e due uomini che lei non aveva mai visto prima.

Oran aveva messo il cappellino con la visie.ra e riempito il cestino della bicicletta con quattro fichi neri.

Andando, si tenne al bordo della strada polverosa come le raccomandava sempre di fare la mamma. La sorpassò qualche automobile diretta a Roca Li Posti.  Dal finestrino aperto a metà di un’auto gialla un bambino la indicò al fratellino.

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Appena arrivata, Oran lasciò la bicicletta sul margine della via e si precipitò verso la vasca naturale che si spalancava dentro le rocce bianche: due palmi di gigante uniti, a coppa, a tenere l’acqua legata a sé; e tutto a pochi metri dallo sprofondo del mare.

L’ora aspra aveva già allontanato i turisti e questo, a lei, piaceva un sacco: amava scivolare sui massi enormi, scendere nel ventre della pietra e toccare l’acqua con le dita dei piedi, senza scocciatori in giro, senza uomini che si tuffavano scomposti calpestando l’acqua con le pance grosse e ragazzini che giocavano a pallanuoto, mentre le signore accudivano i bambini piccoli.

Più in là, dall’altra parte della strada c’era una cappella imbiancata a calce, solo una stanzetta, poche panche davanti all’ altare di tavole grezze. Un crocifisso appeso al muro. Un grosso vaso per terra conteneva le ginestre fresche.

La tenevano pulita le donne anziane del paese, che per il caldo e i pensieri non riuscivano a dormire e all’alba arrivavano con lo straccio e il secchio stipato di fiori nuovi.

 

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Proprio sotto di lei, invece – l’aveva saputo da Papà Uriel – c’era l’accesso a un tempio molto antico che l’acqua aveva sommerso secoli prima lasciandolo nel più solitario degli abbandoni.

Adesso era soltanto il posto sacro dei saraghi, della prateria di posedonia; era il covo dell’anemone dorata e della sogliola, regine del silenzio verde e indaco. Papà le aveva raccontato che a volte, là sotto, al posto delle nenie dei sacerdoti diventati polvere si potevano udire gli schiocchi sordi delle corvine.

Quella mattina Oran aveva visto Mamma Marian appendere il bucato con la Nonna, Zia Mante e Lana nel cortile. Zio Boetius, Zio Leon e Nonno Silvano erano usciti presto con l’automobile.

Per quello si era potuta inoltrare nella parte della casa dove dormivano i Nonni.

Non aveva il permesso di entrare nelle stanze ad est della cucina.

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Tenendo gli zoccoli in una mano aveva superato la porta di legno vecchio, perlustrato la penombra della stanza fresca, sfiorato con piacere il cotone bianco del copriletto ricamato dalla bisnonna.

Oran aveva accarezzato il bordo della toilette di ceramica smaltata sul treppiedi scuro. Aveva tuffato la faccia nell’asciugamano di lino leggero.

Sul lato della stanza opposto al letto c’era la porticina che portava alla camera dove dormiva lo Zio Boetius.

Lei l’aveva aperta con il cuore che le cantava di stare zitta, di non fare nessunissimo rumore, per carità: il suo respiro era diventato il pigolio del pulcino che le aveva regalato Papà Uriel durante la festa patronale.

La cameretta era stata ricavata dal grande corridoio che andava dalla sala alla cucina, molto dopo la costruzione della villa, ed era ventilata da una finestra di piccole dimensioni.

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Le tende erano tirate, e lei sentiva odore di vestiti da uomo stirati troppo, quasi bruciati dal ferro. Una collezione di rosari risaltava cinquanta centimetri sopra la testata di ferro scolpito del lettino.

Oran smise di pensarci e tornò a guardare il mare che si imbitumava di sera.

Era tempo di andare a riprendere la bicicletta abbandonata nei rovi, e di assaggiare i fichi intiepiditi dall’attesa.