La casa della luce

Quando il buio cala, ogni volta che vuoi
puoi ritornare nella dimora del tempo perduto.

Il pensile della cucina
ha sempre quel graffio vicino la maniglia
il cassetto delle posate non si chiude come dovrebbe
la tovaglia sbiadita da troppi lavaggi
è stampata con fragole
e tralci di vite.

Le care ombre
apparecchiano la tavola.

Puoi sederti
e desinare con loro
per riprendere fiato
dall’incuria del mondo.

Mio padre

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Sei la matrice di ogni mio amore
il punto di ritorno
il fantasma senza mani
la cravatta a righe:
un paio di occhiali rimasti senza padrone.
Il crocifisso d’oro
sul torace troppo magro.
Una commemorazione senza fine
la bara vuota
la porta chiusa.
Sei la voce, l’unica che conta
la figura che univa i commensali
il natale felice, la luce accesa nelle stanze
sei anche l’autore del buio
che venne dopo la partenza
sei l’asso di coppe e il re di denari.
Eri lo sguardo che mi dava fierezza
restituzione del mio valore.
Mi incoronavi senza una parola.
Sei la matrice di ogni mio amore.

I desideri esauditi

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L’ inverosimile accadde, a quel tempo.
nel cielo: e chi si scorda la luna
un pazzo mezzogiorno di fuoco con cappello e stivali
ma senza furia né bava alla bocca.
Non c’era traccia d’ armi.
La mia ombra, lui, l’angelo.
Il mio Doppelgänger.
Sconcertati, ascoltammo in silenzio
il frullo delle ali barocche
nel vecchio casale
di divinità alianti che ci univano.
Un rispetto di foglia e di rosa, fra noi.
Era l’amore. Secco. Netto.
Non richiesto.
Uno scudiero regale, il ragazzo;
capelli lunghi e ritorti, alto e sottile
il corpo troppo perfetto. La voce d’attore.
Dovevo essere, per piacergli, com’ero:
senza fingere, fino al morso dell’essenza.
Ringraziai le divinità capricciose
che fossimo impediti da vincoli ottocenteschi
a legare il patto.
Per principio d’onore,
non ci legammo a promesse d’eternità.
Da giugno, andando verso l’inverno
discretamente piansi
con dolcezza monacale, guardando di tanto in tanto
una fotografia.
La sua assenza
non era priva d’amore. Illuminava.
Nel sogno, siamo partiti per il sud:
la piccola casa bianca
i gerani, l’albero dei limoni,
l’isolamento della contemplazione
esterrefatta
l’uno dell’altro.

La solitudine è fuoco

 

il lago delle oche selvatiche

Maledetta la tua fiducia nel mondo
che non vuole decidersi
a farsi miseria.
Un’altra volta
annientata, ritorna.
A cosa serve fiorire,
a Hiroshima
disintegrarti
lentamente rialzarti
per farti crivellare dai colpi?
Quando ritorni allo stato di fiamma
sorriso esclusivo
camicia pulita
ti vede con chiarezza il cecchino.
Non te lo dicono prima
altrimenti
non apriresti le braccia.
Sembravi tu, ma era ieri.
Il manoscritto sul tavolo.
Il caffè nella tazza.
Pienezza.
Dalla finestra, la luce nuova
del giorno.

La seduzione non è per tutti

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La seduzione è cibo degli dei
la sua radice è il ritmo.
Chiede
giocatori forti di tempie
sguardo aperto, capacità polmonare
alza la posta
una variazione vertiginosa di argomenti
è seducente
non avere quel che si pretende
è irresistibile.
Madre dello stupore
sorgente dei contrari
non ottiene nulla, tutto possiede
parte, governa, proclama
non mercanteggia, nulla la distoglie
affascinata dalla trasformazione
contempla aspetti di crudeltà
strappa le bende
è pazza
cammina sul bordo della strada
è incredibilmente savia
l’ora suona, si eclissa
ti obbliga a rivedere
un vecchio film
cambio di fuoco
stacco e battuta
“nulla sarà come prima”
recita il doppiatore
prima del The End
best boy
costumisti
fly cam
effetto notte
nei titoli di coda.

Stelle e stalle. Diamanti e vetro rotto. Sublimità e bassezze. Pour parler

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Ho visto cose che voi umani
(disse la Stella fremente)
un’aspirante poetessa
del verbo lamentarsi
dolersi
deprimersi e deprimere ogni cosa attorno
gambe corte naso grosso
mesta, lessa, ossessa
matrimonio andato a male
vita di oscura provincia
andare a mangiare torva e mogia
i resti della festa
mendicare un brano di attenzione
dove c’è stato un amore
attratta dalla luce
che mai seppe ispirare
attirare con tenacia commovente
il sole fiacco
disfatto da un altro attacco
con una posizione da sottomessa
lei, pecorina del presepe
davanti alla grotta dei santi.
L’innamorata con la fiatella
riesce a soppiantar la Stella
consiglia il sole di bendarsi:
la Stella è un errore.
“Sono io il chiarore che ti salva.”
La grigia donzella naso grosso
lo pensa giorno e notte
lo ottiene, vince, agitando le corte gambette
in un valzer da operette,
Qualcuno avverta la tapina:
dalla scaletta dove è salita
per toccare i piedi degli dei
precipiterà giù
alla prima occasione
quando il sole troverà nuova e calda attenzione
una terza, quarta stella vera o di cartone
appena più convincente
della postulante nuova fiammante.
Alla Stella dispiace un po’
riparte, prende le distanze
monca di un finale da fiaba
all’altezza del sogno.
“Ho visto cose che voi umani”.
Non chiedeva di vedere
la disfatta calante
di un sole perso e abbacinato
da qualunque orizzonte.
Sospira, riprende il cielo.

Perché ti amo, per le luci accese

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Sento un’amica dell’anima al telefono
un vocale è una lettera con la voce.
A lei si risponde con un’altra lettera.
Scaliamo le montagne analizzando l’essenza
entrando in profondità.

A fine estate ero ancora felice, completa come una moneta.
Vivevo dentro un castello, quasi come principessa.
Ma l’imprevisto mi ha riportato nel bosco
a riprendere la strada dell’eroe:
Il dovere è seguire le voci degli alberi.

Avrei voluto che fossi la controparte.
Ma ti hanno mandato a me solo come monito, così mi dici.
Non puoi rinascere. Saluto con la mano e con le lacrime
costretta a seguire le foglie, per chiedere dove portano.

Avevo perso la memoria, ora me ne ricordo.
Sei stato tu a schiacciare la pelle del serpente
facendomi svegliare
in un nuovo sogno, più reale.

Ti lascio, a malincuore, nell’indistinto
delle tue sacre ripetizioni
ma ricordati che, a dispetto delle ombre
e per le luci che si sono accese
io ti ho amato.

Si svelano gli enigmi difficili

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Quando si presenta sul cammino qualcosa di inaspettato
di aggrovigliato
‘na cosa che non chiede udienza e capovolge
le regole che erano state accantonate sul divano
accanto al gomitolo e al ferro da calza, al fazzoletto,
in un primo momento la tentazione è di tagliare
con la scimitarra quel nodo segreto, fastidioso
che rovina la perfetta tramatura della stoffa
e ti proibisce di esercitare l’arte del controllo.

La saggezza su ali nere arriva sempre
ti afferra per i capelli, ti ricorda sferzante
che l’insegnamento ti verrà impartito dopo l’esperienza,
non prima, ottusa donna, settanta sette volte sciocca.

Infatti questa storia bizzarra ti ha portato
un cesto di intuiti novelli, di idee fresche;
le finestre della casa sono state aperte
tolte le sbarre, visitano la stanza
l’aria, il sole, e soprattutto il vento.

E poi, in un punto impreciso
fra lo splendore di una supernova e l’entrata della galassia delle Torri d’argento
lui ti ha amato davvero, e ha posato le labbra sulle tue
con la delicatezza dell’ala di farfalla.

 

Luna calante, il disprezzo, la luce

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Luna calante. Si dimenticano presto le altitudini d’inferno.
Luna del disprezzo. Hai dimenticato di portarti dietro lo specchio.
Vento di finestre nuove: benedici il passato prima di seppellirlo.
Schegge d’afa.
Ti vuole senza bocca. Senza il tiro al bersaglio del parlare dritto, con cui si cresce.

Gli angeli restano con la testa nelle mani: significa che il suggello fra i fratelli è finito.
La luna si butta giù nel fosso.
Non ti conosco da quando non mi hai distinto più fra la folla.
Nell’amore si prende tutto, senza contrattare sul prezzo
è così che germoglia ogni cosa a ogni ora.
Nell’amore l’ombra è il motivo per aver cura di quella forma cara precipitata davanti a te; non accanto.
Mi resta un mistero d’avanzo: com’è possibile odiare la luce?

Il paese a cui tornare

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Se abiti in un paese
hai un paese a cui tornare

se te ne dovessi andare
fra strade sconnesse, grandi capitelli sostenuti da niente
la luce selvaggia, l’orizzonte disegnato a matita.
Passi lunghi e posati
maniche arrotolate
il cappello sulle ventitré.

Per molti anni non sapresti quanto ti manca
il paese.
Riempiresti ogni vaso di fiori, ogni scaffale di libri
giocheresti il gioco del ti conosco, e ti riconosco.

Molti bar dai tavolini lucidi, dal gestore distratto o troppo invadente
insegne a neon, sorprese che allargano i pensieri
un parrucchiere nuovo; molte nuove occasioni.

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Non potresti prevedere quella fitta al petto, un giovedì qualsiasi
quando il tuo paese si farà avanti all’improvviso
gonfio di pioggia, di premonizioni
di odori pazzi di fieno tagliato, e riposto in mucchi ordinati.

Si toglierà la giacca venendoti incontro, con gli occhi lucidi
promettendo un abbraccio, vibrando di un sorriso astrale.

Non farai in tempo a sfiorarlo, a spiegarti: sarai già altrove,
tornata al tuo paese senza scarpe né borsa
una stella cometa
un semaforo interrotto
una bevanda ghiacciata sorbita in fretta.

Tanto amore nel viso chiuso,
lo splendore di un bacio non dato
il biglietto girato con un nome annotato.

 

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La bambina che ti aspettava con le braccia
già aperte, e stringeva il tuo corpo per sempre.
Anche quello era stato un paese.