Notturna

Da mille anni cerco la mia tribù

dispersa oltre confine

prediligo le anime che suonano il tamburo

cercando un ritmo irresistibile.

A Natale non faceva mai freddo

gli avventori si sedevano fuori dai ristoranti

con le stufe spente e senza guanti

a parlare per ore di cose da poco

per il piacere di fermarsi uno vicino l’altro.

Forse le parole che passavano

da una bocca all’altra

da una mano che gesticolava

all’altra che scostava i capelli dalla fronte

trascorrendo nell’aria

non contavano nulla

oppure erano così decisive

da guidare il destino del pianeta.

Una parola può mutare la scia di una stella

cambiare la rotta della nave merci, fermare il traffico

una parola sconsiderata, disarmata

allertata 

caduta dal petto sgualcita

sbalestrata, delicata

può portarmi fino a te.

Le otto montagne (il film)

Ho visto “Le otto montagne” due sere fa, e come mi è accaduto per pochissimi film (successe con “Le onde del destino”, ricordo, e con “Before the rain”) non ha smesso di lavorare dentro di me. Non è solo per la lunghezza della proiezione (2 ore e mezzo) che si impongono così tanti temi alla nostra attenzione di lettori/spettatori. Lettori perché questo film, in modo del tutto misterioso, è un libro. Non perché gli sceneggiatori abbiano esagerato con la voce narrante, che solo di rado inserisce, quasi sempre senza modificarli (ho controllato oggi), brevi brani del testo di Cognetti. È un libro perché questa sceneggiatura funziona, lascia spazio a chi guarda (contempla) la pellicola perché entri in risonanza e ri-crei le proprie immagini, non mostra sbavature, avanza con lentezza e poetica coerenza. I dialoghi sono ridotti.
A chi osserva è affidata, a volte, la responsabilità del dipanarsi di una trama in cui un bambino diventa adolescente solo con un cambio rapidissimo d’inquadratura. Parlano con prepotenza silenziosa gli oggetti, gli arredi delle case dei borghi semiabbandonati, i paesaggi, parla la montagna, nel ripetersi innamorato di inquadrature di una fotografia stupendamente bella (del fantastico Rubens Impens) di sentieri, di sassi, di cime, di pezzi di case e tetti. Le case, sono centrali. C’è la casa di Torino, la casa essenziale affittata per l’estate in montagna, fino ad arrivare a una dimora ancora più sobria, archetipale e simbolica come un tempio, la casa che costruiscono i due amici, che ricompone una separazione forzata.
La narrazione di Cognetti è rispettata, anche se a mio parere andava citata anche en passant la storia della tragica amicizia del padre di Pietro con il cugino della moglie, che come accade nelle grandi storie è sintomo e prefigurazione di ciò che verrà; forse giustificherebbe gli attacchi d’ira frequenti e logoranti del padre del protagonista che per altri versi si fa amare e rispettare.
Il testo del libro/film è attento a ciò che si ripete, cerca il doppio misterioso e perturbante. Sottolinea che Pietro si innamora di una donna che fa lo stesso lavoro di sua madre. Sua madre e suo padre hanno un solo figlio, ma in realtà ne hanno due. I familiari di Pietro hanno almeno due vite, quella della città che frastorna, distrae e che per Pietro bambino “potrebbe rovinare il suo amico” e quella della montagna aspra che invece riporta alla purezza delle intenzioni, all’amicizia appunto, all’amore, oltre che alla disperazione e alla solitudine più assoluta, accecante e fredda come la neve.


Due, sempre due. I due amici si dividono le mansioni esistenziali: uno è quello che viaggia, l’altro è quello che resta, che aspetta. Uno, secondo il protagonista, è quello più adatto a relazionarsi con suo padre, l’altro no. Allo stesso modo le montagne sono chiamate in due modi, c’è chi nomina ogni cima, ogni luogo, persino un lago con precisione e chi invece di montagne e ampio paesaggio ne fa un solo nome, “Grenon”. Opposizioni. Contrasti. Nella famiglia di Pietro (che si chiama Berio, per Bruno) il padre è preda dell’ira, la madre cerca di riconciliare le persone di famiglia, estendendo la sua azione amorevole a coloro che entrano nel suo raggio d’azione.
Intanto questo film è per prima cosa la storia di un’amicizia baciata dagli dei, la philìa per i greci, da tutti ricercata e raramente trovata, che va oltre le distanze sociali, geografiche, caratteriali. Racconta anche di un’evoluzione spirituale, con sobrietà, evitando schematismi, riuscendo a non sentenziare mai.
Quando Pietro racconta a Bruno delle otto montagne contrapposte alla montagna più alta da raggiungere il momento è sdrammatizzato da risate, che lo alleggeriscono, rendendolo più convincente.
L’opera è costruita intorno alla problematica del percorso di un aspirante scrittore. La tematica è suggerita, mai sottolineata con pesantezza. Guardiamo ciò che accade nello specchio con cui Perseo affronta Medusa. “Si parla d’altro per parlar della corona”. Il protagonista, infatti, alter ego di Cognetti, si vede solo per pochi secondi battere un testo a un computer, e si accenna a un suo libro con poche battute. In realtà il film è basato, in fondo, sulla difficoltà che esiste quando si desidera svincolarsi da convenzioni, strutture familiari troppo chiuse, persino da paesaggi che ci nutrono e ci soffocano per arrivare alla consapevolezza di poter battezzare e benedire il proprio destino.


Ciò tenta di farlo anche Bruno, che come Pietro si svincola dal suo destino; lui, in particolare, dal cappio esistenziale che gli ha imposto un padre manesco e insensibile, che gli ha negato la possibilità di studiare con i generosi borghesi arrivati dalla grande città (Torino nel film, Milano nel libro). Prova a seguire – perfino ottusamente, alla fine, la voce dei suoi antenati, antieroe in una società che non permette più di sopravvivere nella durezza dei monti con quello che si produce e si vende. E qui, come accade nelle grandi narrazioni, in controluce ecco la critica a toni pacati ma fermi di una società che non si preoccupa più delle “piccole patrie”, che passa cieca come un carrarmato sulle piccole comunità già disintegrate dalla fuga dei residenti verso i grandi centri.
Ben trattato è il rapporto fra il protagonista e il padre, rifiutato e amato con forza, invece, poi nell’assenza. Pietro lo ricerca su mappe della memoria che hanno consistenza fisica, sono le carte topografiche della montagna scalata. Lo decifra seguendo le linee del pennarello con cui l’uomo segnava i sentieri fatti con il figlio o con Bruno. Lo cerca sui fogli consumati dei libri dell’ospite presso i rifugi.


Tutto in questo film (come nel libro), anche l’argomento più denso e tragico è trattato in un modo sapiente e stilisticamente raffinato. Noi spettatori camminiamo con gli attori sugli stretti sentieri fra gli abissi, proviamo a saltare un crepaccio che monta su un ghiacciaio con il mal di montagna, soffriamo per non avere saputo comunicare con chi abbiamo amato, e per non averlo saputo, forse, salvare. Grandissimo film (da un grandissimo libro).

Prima del ritorno

Le creature erano là. Erano sedute là

con le braccia alzate

le mani vuote

sulla tavola apparecchiata

l’ago della bussola continuava a girare

fra le parole scorticate

parole mancate, rimasticate

il cielo era una sciarpa chiusa

uno scontro d’astri

un’apertura alare soffocata dal grido

di uno sconosciuto che passava

l’uomo dagli occhi fucile

l’uomo con gli occhi specchio.

Le porte sbattevano tutte insieme

gli strumenti dell’orchestra non andavano a tempo

finché l’aria cambiò

senza preavviso il mondo si rovesciò

sette colombe avvistate prima del temporale

da due bambini arrivati dalla fine del mondo

volarono rapide sotto le arcate del palazzo di pietra

la porta maestra fu spalancata dal guardiano

odore d’assenzio e d’alba

il mondo si rovesciò

la bussola si trasformò nella rosa

ricordami la canzone che ho smesso d’imparare

ricordami dove passa la strada che devo attraversare

per ritornare.

Pasolininutilità – 1-2 novembre 1975-2022

Pasolinaggini, pasolinerie, pasolinutilità, dare fiato alla bocca, cianciare, improvvisarsi opinionisti, rimpiangere scioccamente ciò che non si conosce né si comprende; il qualunquismo italiano di cui parlavi era, rispetto all’oggi, pensiero di spessore, e le sottoculture oggi sono scivolate in un abisso.

L’80 % dei saggisti italiani hanno da sempre amputato la tua figura, sdraiandola sul letto di Procuste, cercando di ritagliare dalla tua grandezza la finestrella rassicurante del romanziere, del saggista, del drammaturgo, del cineasta, del poeta; incapaci di valutare la Forza e l’Unità della tua Opera.

Figurarsi il resto della ciurma che ti rincorre invano, come le frotte di bambini che inseguono urlando Nur ed Din (che disperato cerca Zumurrud).

Così recita l’Incipit de “L’Arcano di Pasolini ” di Jack Hirschman :

“Mi lasciate vivere? No.

Sono continuamente richiamato, risvegliato dalla mia vita

e mi si chiede di eseguire acrobazie per voi nel mondo

della morte che avete creato dalle cose.”

(Nell’immagine Pasolini in “Edipo re”, 1967)

Anguillara Sabazia


Hanno messo radici da secoli
sulla collina le case del borgo
seguendo la linea dei pensieri
dei costruttori
guardando continuamente la loro immagine
riflessa sull’acqua
impararono a dimenticarla
le donne riprendevano le lenzuola
con gesti secchi esatti
dai fili stesi
aprendo e richiudendo le persiane
le botole
le porte delle soffitte
i coperchi delle pentole
il lago diventò l’abitante della casa
seduto al tavolo grezzo di legno
come gli altri
i suoi occhi trattenevano
la nostalgia dei boschi
le forme lontane dolci e oscure della capitale
tentacolare
un’allegria di umidità e di pietre annerite
dalla cenere dai ricordi foschi
nella vecchia osteria il lago
era uno degli avventori
il battello passava ogni giorno senza lasciare il segno
si compieva un torto alla storia
avveniva tutto in modo circolare
chiese notizie, le dissero
che le uova dei cigni non avevano dato frutto
l’inverno preparava lampi e tuoni sopra Bracciano
l’estate era una cesta piena, Anguillara Sabazia
cominciò a sbarrare le porte
e così
nessun forestiero poteva entrare
non esisteva un salvacondotto
la sorte secolare della solitudine
se il lago fosse il mare
il borgo sarebbe un’isola.

Notizie dalla foschia azzurra

Ti hanno detto che sei una chiave d’argento?
Ti è stato annunciato che sei un corpo poetico
che danza indolente come un’alga nel mare
trasparente di Moeb, nel primo cerchio dei dannati
per amore?
Ti è giunta notizia
nella contrada di Desert Home
che un cuore si è aperto come un cassetto cigolante
di legno tarlato e polvere
ti è arrivata voce che le lettere non partono mai?
Che non siamo conchiglie né eroi
ti è parso, dolcezza, che il vento conosciuto, familiare
smettesse di soffiare
come quando si abita nel paese dei morti?
Hai saputo, forse, da qualcuno
che il terreno fertile si è aperto nelle sue crepe principali
ti ha soccorso l’inverno in piena estate, mai?
Cerchi il significato della parola non data
girando in tondo, ma sono tempi grigi;
il pozzo è arido
il secchio è rotto
la foresta non si risveglia
è una falsa partenza
ma ad ogni modo credimi
ti sarà rivelato il senso, dèmone, angelo mio
non appena smetterai di cercarlo.

Il pianeta delle occasioni perdute di Patrizia Caffiero, recensione di Francesco Russo

Una recensione di Francesco Russo, che ringrazio di cuore, al mio libro “Il Pianeta delle Occasioni Perdute”, Musicaos editore

Nea: NuovaEcologiaArtistica

“Cosa avevi chiesto al pianeta ? Cosa dovevi trovare qui?”

“Ho chiesto di incontrare l’uomo che sarebbe stato il grande amore della mia vita”.

Ho scelto questo piccolo passaggio, fra uno dei tanti dialoghi presenti, per introdurre una opera letteraria che potrebbe essere presentata come l’amore che cammina mano nella mano con la fantascienza.

IL PIANETA DELLE OCCASIONI PERDUTE è l’ultima intensa fatica letteraria della brillante scrittrice salentina (ma vive in Emilia ) Patrizia Caffiero; una serie di racconti allocati temporalmente in un futuro molto lontano da noi .

Premesso che, personalmente, non ho la fantascienza nelle mie corde, ho accettato, però, di immergermi in questa avventura e bene ho fatto a non tirarmi indietro.

Patrizia, infatti, ha innanzitutto il merito di ricercare, con coraggio e un pizzico di incoscienza, un nuovo linguaggio, denso di termini che si accompagnano al contesto temporale che il libro offre.

Nel foro interno di…

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“Poesie della piana” di Patrizia Caffiero

Cinque mie poesie sulla rivista “CULTURAOLTRE”
ringrazio di cuore Maria Rosaria Teni

Cultura Oltre

Nuovo Documento di Microsoft Publisher (2)

Molto interessante la piccola raccolta  Poesie della piana di Patrizia Caffiero, che ho pubblicato interamente proprio per consentire una conoscenza completa e un approfondimento delle liriche in essa contenute. Un vago crepuscolarismo pervade quotidiani riti e oggetti di uso comune “il cassetto delle posate non si chiude come dovrebbe/ la tovaglia sbiadita da troppi lavaggi” e, nell’angolo riposto della memoria, si allineano le ombre di ricordi mai sopiti. Rivive un’atmosfera che ricorre a immagini dimesse e colloquiali, la fragilità della condizione umana, il ritorno alla dimora di un tempo perduto da rivivere nel proprio silenzio personale, intriso di significative venature di affetti. Un affresco di sentimenti semplici e puri che sono espressi da un verso che, pur mantenendo il ritmo poetico, si rivela efficace e stilisticamente elegante. [Maria Rosaria Teni]

La rivolta dell’acqua

Dalla montagna alla foce

la donna del giglio camminò

per molti anni, leggera

a dieci centimetri…

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Il prato azzurro

La casa rimaneva in piedi

attraversando le costellazioni

banchi di nebbia e sabbia

un milione di flotte di gabbiani

incrociò

libellule, api regine, mosche, ragni volanti

fu testimone di ogni fioritura

e degli anni di siccità

sorgeva

i denti digrignati

la medicina delle trappole

si tramandava che nel fiore

della sua altera giovinezza

una banda di meteoriti

avesse spezzato la sostanza dei suoi sogni.

La casa rimase in piedi

vulnerabile

invincibile

con la sua corazza di cristallo

le pose da café chantant

aveva rinforzato le finestre

con legni di antiche navi da battaglia

ospitato un gallo cedrone nel cortile.

Aveva osservato la faccia della luna

con telescopi d’argento

a lume di candela

aveva scritto lettere al futuro

a lungo aveva atteso

sopravvivendo a pugni stretti

la fine delle catastrofi giganti.

Il viaggio di Victor

La statua di Hor

sulla via delle spine giganti

indica la strada verso il cielo

quando la incontrerai, Victor

girerà a vuoto la lancetta della bussola

i sogni si scambieranno i simboli

si travestiranno per confonderti

la stella del tuo desiderio dietro la fronte

significherà un’altra cosa

e ancora un’altra

si prenderanno gioco di te

le piante, i fiori e l’orizzonte di Eston

non ti darà tregua la ferita

che pure si era sigillata, si sveglierà la fiamma

e non vorrà

ridursi alla valenza di un ricordo

rifiuterà di somigliare all’ombrello di carta di riso

all’anello di sabbia

alla tazza sbreccata esposta fra le altre

sul tavolo grezzo dei mercatini siderali

del Popolo dei Monsoni

Victor, è giunto il tempo

la prova della direzione da prendere

davanti al bivio delle cinque dimensioni

sei candidato alla clinica

delle buone intenzioni

ti svestirai di tutto ciò che possiedi

procederai verso gli alberi

all’ombra della tua coscienza silenziosa.

Così l’alba seguente, nel bosco che germoglia

alla velocità superluminale

nel profondo della piana

rinascerai.