Un sogno

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Senza fine sta cadendo la neve
sulla piana la bianca distesa
si posa, coprendo le tracce
di chi lascia la casa per sempre.
Senza stampelle lei era uscita, nel sogno
per seguire l’amore perduto:
nella casa non fece ritorno.
Ogni volta che uno dei miei
comincia il suo viaggio
la neve, scendendo, cancella le tracce.
Non conviene seguire le impronte dei passi;
chi va altrove
non conviene seguirlo.
Ora lo sai, così quando aprirai la porta
perché sarà arrivato il tuo giorno
non proverai nessuno stupore
vedendo cadere la neve.

Amicizia con le donne

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Ho smarrito il tempo e l’identità
nelle piazze di antichi paesi del “Capo”.
Si dormiva ad Otranto con Antonella;
poi, sprofondavamo più a sud, per toglierci le scarpe
e scordarci tutto ballando la pizzica.
Ricordo una notte con Eva nel casale vecchio
ad annodarci come trecce le esperienze
l’una dell’altra. Si condividevano segreti:
in quel luogo la vita cresceva così forte.
Con Luisa scrivemmo a quattro mani un libro
che resterà inedito. Destino. Mi veniva a trovare nei sogni,
animali in affinità. Lei scelse la madre, non se stessa.
Ho ritrovato Sandra seguendo tracce di polvere lunare
i suoi simboli onirici così nitidi.
Il coraggio di trasformare l’ombra
ci accomuna. Nessun compromesso può piegarci.
Mi interessa solamente la persistenza dell’intento.
Resistere all’imperativo della maggioranza
che fa quello che non pensa
che dice quello che non fa.
La donna lupa viene dall’acqua e danza vicino al fuoco
con le sue sorelle.
È sincera.
Ore Yeyè ô!

Poesiola per ridere

 

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Piangendo è venuta
a chieder conforto una donnina.
Bruttina, ma sorridente. Quasi piacente, via.
Si era fatta di fresco la ceretta
e sgombra dai baffi sembrava quasi graziosa.
Minacciava di togliersi la vita
o di presentarsi a casa dell’Amato
per reclamare quel che le spettava.
Cosa posso fare per aiutarti
le chiesi accorata
ti prego, dea
devi intercedere per me
presso il Poeta.
Chiedigli di dedicarmi una Poesia.
Una poesia. Risposi. Chiedi troppo, cara.
Roba da piani alti. Non posso accontentarti.
Chedigli allora, ti supplico
(e piangeva, piangeva la reietta)
di dedicarmi una sillaba o due.
Una mezza metafora.
Un aggettivo giulivo, un punto e virgola
mi basterebbe per sopravvivere
in questa valle di lacrime.
Ci provo, poveretta. Mi fai pena.
La baciai sulla fronte
(mi arrivava al petto)
e provai a chiedere
al poeta di salvare una vita.
Poeta, devi sforzar la penna
dedica almeno una strofa a questa cinna.
Anche a un cane scodinzolante
si butta un osso, ogni tanto
perché non faccia chiasso.

L’urlo

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Non pensi
che ignori la ruga della carta crespa.
Lo spazio fra una lettera e l’altra
diventa la finestra, e lei vede azzurro.
L’effetto della luce che dirige la donna
dritto verso una stanza che vola
illumina un fascio d’ombra.
Da secoli abituata a non chiudere gli occhi
con stupore si accorge di un ghigno atroce
legge la frase sardonica di chi getta le spugne,
batte le mani sul tavolo,
poi la fronte.
S’illude di mandare calore
preghiera può essere solo un pensiero.
Qualcosa si muove, del calice
ed è:
l’odio per la propria empatia
il livido che sale di giorno in giorno.
Il freddo si accumula nella discarica fragile
il volto del mondo si concentra in una questua
che chiede troppo, e ormai
si muore.

Si svelano gli enigmi difficili

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Quando si presenta sul cammino qualcosa di inaspettato
di aggrovigliato
‘na cosa che non chiede udienza e capovolge
le regole che erano state accantonate sul divano
accanto al gomitolo e al ferro da calza, al fazzoletto,
in un primo momento la tentazione è di tagliare
con la scimitarra quel nodo segreto, fastidioso
che rovina la perfetta tramatura della stoffa
e ti proibisce di esercitare l’arte del controllo.

La saggezza su ali nere arriva sempre
ti afferra per i capelli, ti ricorda sferzante
che l’insegnamento ti verrà impartito dopo l’esperienza,
non prima, ottusa donna, settanta sette volte sciocca.

Infatti questa storia bizzarra ti ha portato
un cesto di intuiti novelli, di idee fresche;
le finestre della casa sono state aperte
tolte le sbarre, visitano la stanza
l’aria, il sole, e soprattutto il vento.

E poi, in un punto impreciso
fra lo splendore di una supernova e l’entrata della galassia delle Torri d’argento
lui ti ha amato davvero, e ha posato le labbra sulle tue
con la delicatezza dell’ala di farfalla.

 

Tu che vivi già morto

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Abiti dentro un’accogliente bara sigillata
arredata dai soprammobili di vetro soffiato
acquistati a Venezia in visita guidata
lampade piccolo borghesi
cornici in peltro
poltrone reclinabili

hai il permesso di scrivere in angolo del tavolo
della camera da pranzo
ma solo se non è apparecchiato
perché lo studio serve a ricevere gli ospiti.

Venisse qualcuno a trovarci
deve restare pulito.

Tu che sei diventato due
che sei migrato nelle parole cigno
nelle frasi ad arco, a giro, a manovella.
Tutto di te è andato nei sintagmi
nel punto e virgola, nei capoversi.

Non resta niente. Niente da fare
Niente da dire.
Niente è rimasto fuori dalle tue parole
solo un corpo vestito in odor di composizione.

 

Illusione fra una luna e un’altra

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Dalle parole entra ed esce fuoco.
Sono chiodi che aprono ferite
se non si fa attenzione.
Maneggiare con cura.
Tenere lontano dai bambini.
Può danneggiare i cuori.

Ci sarà un motivo perché sei apparso tu
alla fine di una strada
appena prima dei fiori.

Intanto sei il motivo di una canzone
la salita e la discesa
un vento caldo
la scommessa dei baci.

Sei l’attesa
un enigma, l’illusione durata il tempo
che passa da luna a luna, quando è piena

Sei un racconto nuovo sulla mia tavola.

Ci sarà un motivo perché ti sono apparsa
alla fine di una strada.

Il dolore, presto, passerà.
Me lo prometti?

Non dare da bere a un assetato qualunque

JANE LONG
Immagine di Jane Long

Ho perso l’abitudine
di certi ambigui commerci con umani.

Avvolta da anni nel bozzolo bianco
della “presenza mentale”, diventai
poco accorta.

Un tempo nutrivo il talento di altri
per non raccogliere le gocce perse dal secchio bucato
del mio.

Poi mi ripresi, bla bla, e riparai
la modanatura delle ali, che crebbero
in un largo vaso, orgogliose.

E mi accorgo che certe regole
vanno ripassate, come quella, molto importante:
“non nutrire l’ego di un principe azzurro qualsiasi.”

La bambina di dieci anni
che convive in me
riprende il quadernetto, si siede al banco
e scrive in bella calligrafia:
quella creatura non ti vuole bene, prende la tua buona energia
per sé, incurante della tua vita.

La soluzione del problema di algebra
maestra,
è facilissima:
“SCAPPA”.

 

 

 

 

 

 

 

E se lei fosse un angelo?

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Un’avventura, la sua vita. Per chi la sapesse interpretare – ma chi può farlo?
un territorio accecante di bianco, metafisico, dove agiscono gli incontri.

La terra è solo una scacchiera dove le anime possono incontrarsi, reincontrarsi; scambiarsi informazioni. Perdonarsi, amarsi.
Farsi la guerra.
Il resto è un palcoscenico, un fondale. Il resto sono trucchi da prestigiatore.

Li vedeva soprattutto prima di morire. O prima di un grande salto esistenziale.
Era stata inviata soprattutto per quello, come se non fosse una ragazza: ma un segnale.
Il suo sorriso era di stampo divino, non era soltanto pieno di calore.
Era un avvertimento.
Nel senso di “accetta il tuo destino”; o “preferisci la dignità”.

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Non sapeva mai prima che tipo di missione stava per svolgere.
Lo comprendeva sempre un attimo dopo.
A meno che le disposizioni fossero diverse, per una sopraggiunta eccezione.
Allora agiva con consapevolezza piena, e muoveva le sue carte con più forza.L’enigma della sua vita.

La bellezza della luce.
La pienezza dei sogni realizzati.
La violenza dei distacchi, il sapore amaro di troppi addii.

Gli umani le mancheranno, quando dovrà tornare da dove è venuta.

I Teatri Rurali della Selvatica, la Metamorfosi, l’amicizia, l’arte-vita

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“Non smetteremo di esplorare. E alla fine di tutto il nostro andare ritorneremo là dove abbiamo cominciato. E per la prima volta conosceremo il luogo.
Thomas Stearns Eliot

Al B&B La Selvatica, un crocevia di viaggiatori, un luogo speciale creato dall’energia e dal lavoro di Enrico Fontana, ieri è accaduto un altro miracolo.
L’antico casale ha vibrato delle emozioni di un intenso e partecipato spettacolo corale.
Il collettivo di artisti ha beneficiato dello sguardo e dell’imprinting del regista teatrale Luca Dal Pozzo, che ha saputo dare maggior rilievo e spessore alle forme narrative, visive e sonore, alle storie di ognuno dei partecipanti. Benvenuto ai Teatri Rurali, Luca!

L’evento di ieri, domenica 24 marzo, la festa dedicata all’Equinozio di Primavera, ha raccontato la METAMORFOSI, la TRASFORMAZIONE dell’ombra in luce che ad ognuno di noi tocca compiere.


Tutto è iniziato con l’accoglienza.
Renzo Sacchi dava il benvenuto, mostrava cosa significa il valore della lentezza, del TEMPO, tagliando senza fretta la focaccia che aveva impastato e cotto con le sue mani, affettando una fetta di salame; offrendo il vino ai viaggiatori appena arrivati e dicendo loro cosa sia l’orologio, di come sia stato inventato per sottomettere il tempo.
Prima di congedarsi, lasciava una monetina nelle loro mani, da  spendere nel viaggio.

La seconda scena era improntata alla METAMORFOSI FISICA, quella assoluta, quella che genera difficoltà. Come a dire che il mutamento non porta sempre a uno stato di benessere immediato, che richiede fatica.
Soprattutto quando è totale, rivoluzionario, come quello che richiede il cambiamento di sesso.
Angelo Spiga, il nostro CANTASTORIE con la chitarra, e Alessandra Lugli, la VOCE, cantavano, dopo averla destrutturata, “Princesa” di De André.

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Insomma, il viaggiatore, se sensibile, se avvertito, aveva già la sensazione di non dover semplicemente guardare uno spettacolo, ma di essere chiamato a interagire; a non negarsi, a dare qualcosa di sé al casale.

Incontrava Anna Rossi, che recitava un testo sul DOLORE, e lavava delle pietre con  gesto ripetitivo, fatto di pazienza infinita.  Insegnava che la METAMORFOSI esige dedizione, anche fatica fisica. Per trasformare la materia color carbone, e accedere alla Trasmutazione alchemica, non si può evitare un impegno che costa, a volte, alcune lacrime. E sudore.

Maria “Pelle d’acciaio” ha dato ai viaggiatori la sua esperienza di vita dura e tenace, vissuta all’ombra di un atteggiamento poetico costante. La sua vita è arte.
Nella sua stanza c’erano pere marcite, fotografie di quando erano ancora fresche, ricordi della sua esperienza in fabbrica a smistare frutta.
Lei affondava le mani e la voce nelle storie della TRASFORMAZIONE più radicale, che porta al disfacimento, alla MORTE.

Nel processo di METAMORFOSI deve trovar spazio, per riequilibrare, per sollevare chi si mette in gioco, la LEGGEREZZA.

La saggia Laura Riviello, nello spazio seguente, come i Mentori che appaiono nei miti, nelle fiabe a prestare soccorso all’EROE,  regalava al viaggiatore un talismano per aiutarlo a procedere nel suo percorso personale. Ogni visitatore poteva scegliere fra più ricette – la ricetta della FELICITA’, della RESILIENZA, e così via – e portava via con sé gli ingredienti del CORAGGIO, o dell’AMORE per poterla realizzare, in un magico sacchetto.

Poi veniva il turno di incontrare Antonella Laterza, che rappresentava la METAMORFOSI della materia fisica, dava istruzioni per comprendere i cambiamenti del corpo, citava l’ipotalamo, mostrava disegni; ma non dimenticava di citare le stelle.
Lei regalava a chi arrivava il dono prezioso dell’IRONIA.

Ed ecco la nostra CANTADORA Giovanna Simoni che, tramite le parole de “Le città invisibili”, ci ricordava che la strada che si sta seguendo per TRASFORMARSI, con SACRIFICIO, DOLORE, CONSAPEVOLEZZA, LEGGEREZZA, non risparmia biforcazioni, crocicchi. Questo porta continuamente al fiorire di dilemmi, di dubbi.
Infinite possibilità sono generate da ogni nostra piccola decisione.
Chi percorre la via del cambiamento deve sentire come far la propria SCELTA, scegliere la direzione.

E poi, si incontrava Karin Dolin, che, sporca di colori e di vita dipingeva un murale: le figure di due bambini. diventati grandi amici, le cui vite sono intrecciate in modo profondo alla storia del casale. Karin, che con la sua anima d’artista ha TRASFORMATO la Selvatica portando i suoi colori, i suoi messaggi.

Nella stanza seguente, il visitatore andava a trovare l’ABISSO. Una stanza magica e suggestiva, dove si doveva semplicemente “stare”. Sperimentare la parte di sé che desidera uno spazio più grande di quello che permette il rumore della vita quotidiana fatta di fretta e di muri. Giulia Sacchi ed Eleonora Busi erano le madrine di quel momento largo, e lo facevano vivere con parole sussurrate e brevi suoni che aprono la percezione.
Il rischio, però, è di stare in contatto con l’ombra; che tutti noi proviamo, a volte, a schivare, a non guardare. Non si deve avere paura di scavare a fondo.
La METAMORFOSI necessita di un contatto con l’ombra. La Qabbalah consiglia che non debba essere né troppo breve, né troppo lungo perché sortisca effetti benefici.

Si giungeva alla stanza del tè. La METAMORFOSI si accostava al RITUALE.
Un bellissimo allestimento fatto da Emanuela Vecchi con stoffe e arredi semplici rendeva lo spazio una sorta di mondo iperuranio. Emanuela ed io, offrendo il tè, mentre una voce registrata interpretava un brano di poesia di Peter Handke che poneva domande sul senso della vita, creavamo con poche parole e gesti misurati un luogo di presa di consapevolezza, o semplicemente di pace e di armonia, dove si alludeva per brevi cenni e annotazioni verbali alla cerimonia del tè giapponese, al wabi-sabi, la meditazione sulla bellezza delle piccole cose, o alla bassa entrata concepita nelle  antiche stanze del tè per costringere i partecipanti ad inginocchiarsi in segno di umiltà.

Il visitatore si preparava alle scene finali dello spettacolo: Maria Ramirez, nell’ultima stanza raccontava la sua storia personale, familiare, intensa e forte.
Sembrava dire a chi ascoltava, narrando in spagnolo e accompagnandosi con la musica: ho imparato a prendere posizione, a liberarmi dagli schemi e dai condizionamenti per agire.
Ho agito come agiscono i guerrieri.
Nella sua storia ognuno poteva riconoscersi o, da essa, trarre ispirazione.

Il finale è stato esplosivo, forse una catarsi, o un rivivere le fasi della METAMORFOSI.

Un bellissimo spettacolo di sonorità e performance, grande energia della Donna Serpente, che prendeva forza e coraggio dalla terra.
Gli stupendi suoni ipnotici di Cinzia Zaccaroni e il gesto teatrale di Giulia Galiera hanno chiuso il viaggio, che è continuato, per chi lo desiderava, a tavola, con il cibo preparato da Renzo con amore.

E” solo l’amore che, chi sa e chi può dare e ricevere, porta in luoghi speciali, preziosi.
La Selvatica è uno di questi luoghi, e io ho avuto ed ho la fortuna di conoscerlo.

Grazie, come sempre, per aver condiviso.
Grazie a Daniele Dencs per la sua partecipazione e le sue opere (Dirùpators)