Brevi note sullo spettacolo “L’appuntamento del Sig. Nessuno di Cuccurullo, Squassabia, Baroncini

Lo spettacolo “L’appuntamento del sig. Nessuno” nasce da una sinergia profonda fra tre persone che hanno affinato negli anni al massimo lo strumento del proprio talento principale e lo mettono a disposizione di altri media. La fusione fra artisti diversi può riuscire in modo così efficace per la forte identità di ciascuno di essi che, per questo, riesce a mettersi in gioco generosamente donando agli altri la sua arte, la sua sensibilità. Ciò, sebbene rappresenti un fattore importante del progetto, non basterebbe però a giustificare completamente l’intensa magia che comunica la performance. Questo spettacolo è fresco, originale, spiazzante e fuori dal coro. Comunica con i linguaggi dei cortometraggi d’autore, della musica di livello, dei graffiti, dei libri d’autore per bambini, dell’arte visiva contemporanea. Vito Baroncini e Federico Squassabia non sono semplici “accompagnatori” dell’interpretazione dell’attore in scena, ma sono – con i raffinatissimi suoni del pianoforte e segni della lavagna luminosa – altrettanti attori/autori principali dello spettacolo.
Alfonso Cuccurullo mette in scena molto altro oltre alla nota e riconosciuta sua capacità tecnica, all’uso sapiente e sperimentato della voce, alla gestualità espressiva. La sua conoscenza approfondita della letteratura per ragazzi e la pratica della lettura ad alta voce per bambini ed adulti fanno un salto di qualità legandosi a un intento che ha trovato la quadra con il contributo dei suoi compagni di viaggio e di scena. Il corpo dell’autore stesso diventa interamente poetico, il viso cancellato – come da un tratto di una matita gigante – lo fa contrarre, o compattare in un simbolo, nella sintesi di un essere umano che potrebbe essere qualsiasi essere umano o ciascuno di noi. Il suo linguaggio si frange e diventa a tratti un borbottio, quasi un grammelot. Mi ha ricordato fortemente la splendida “linea” di Osvaldo Cavandoli. Questo Sig. Nessuno, però, non ha molto di inquietante, quasi niente. Potrebbe farmi pensare immediatamente al tema dell’“omologazione”, del livellamento antropologico; invece l’urgenza della pièce mi sembra un’altra. La perdita della propria faccia si rivolge alla possibile perdita della propria direttrice esistenziale. È uno spettacolo sulla necessità di aprirsi alla forza dell’amore e dell’incontro con una controparte, sciogliendo le proprie paure, i nodi, i traumi irrisolti, al fine di scoperchiare il vaso di pandora delle proprie potenzialità. L’amore è visto come forza eversiva che capovolge le abitudini, fa piazza pulita di ciò che nella casa dell’interiorità impedisce di aprirsi all’altro. La spettacolare lavagna luminosa di Vito Baroncini infatti, nel finale, crea un femminile dalle fattezze di una numinosa sirena che sarebbe piaciuta a Barthes, a Baudrillard, a Bataille.
Il Sig. Nessuno e il suo viso inizialmente nascosto, dicevo, non è associabile al perturbante, non ha proprio nulla dell’orrifico.
Io credo sia un azzeramento, il punto zero, la soglia che rende possibile la partenza di ogni storia. Come a dire: mi rendo disponibile a non assumere su di me alcun ruolo. Sono un sig. Nessuno. Nessuna prosopopea, nessun narcisismo. Qualsiasi nominazione delimita, chiude. Io sono un sig. nessuno, desidero esserlo perché sia consentito alla mia storia personale/artistica di ripartire in continuazione.
Si scongiura, in questo modo, la sclerotizzazione di un ruolo, di un’adesione a cliché, persino a quelli più intriganti. Perché questo reclama, infine, la purezza degli intenti.
I tre artisti alla fine mi comunicano questo, con questo spettacolo: “Ci poniamo di fronte alla vita- e al pubblico – come davanti a una pagina bianca, su cui poter disegnare/scrivere/recitare/suonare/vivere infinite narrazioni.

I Teatri Rurali della Selvatica, la Metamorfosi, l’amicizia, l’arte-vita

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“Non smetteremo di esplorare. E alla fine di tutto il nostro andare ritorneremo là dove abbiamo cominciato. E per la prima volta conosceremo il luogo.
Thomas Stearns Eliot

Al B&B La Selvatica, un crocevia di viaggiatori, un luogo speciale creato dall’energia e dal lavoro di Enrico Fontana, ieri è accaduto un altro miracolo.
L’antico casale ha vibrato delle emozioni di un intenso e partecipato spettacolo corale.
Il collettivo di artisti ha beneficiato dello sguardo e dell’imprinting del regista teatrale Luca Dal Pozzo, che ha saputo dare maggior rilievo e spessore alle forme narrative, visive e sonore, alle storie di ognuno dei partecipanti. Benvenuto ai Teatri Rurali, Luca!

L’evento di ieri, domenica 24 marzo, la festa dedicata all’Equinozio di Primavera, ha raccontato la METAMORFOSI, la TRASFORMAZIONE dell’ombra in luce che ad ognuno di noi tocca compiere.


Tutto è iniziato con l’accoglienza.
Renzo Sacchi dava il benvenuto, mostrava cosa significa il valore della lentezza, del TEMPO, tagliando senza fretta la focaccia che aveva impastato e cotto con le sue mani, affettando una fetta di salame; offrendo il vino ai viaggiatori appena arrivati e dicendo loro cosa sia l’orologio, di come sia stato inventato per sottomettere il tempo.
Prima di congedarsi, lasciava una monetina nelle loro mani, da  spendere nel viaggio.

La seconda scena era improntata alla METAMORFOSI FISICA, quella assoluta, quella che genera difficoltà. Come a dire che il mutamento non porta sempre a uno stato di benessere immediato, che richiede fatica.
Soprattutto quando è totale, rivoluzionario, come quello che richiede il cambiamento di sesso.
Angelo Spiga, il nostro CANTASTORIE con la chitarra, e Alessandra Lugli, la VOCE, cantavano, dopo averla destrutturata, “Princesa” di De André.

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Insomma, il viaggiatore, se sensibile, se avvertito, aveva già la sensazione di non dover semplicemente guardare uno spettacolo, ma di essere chiamato a interagire; a non negarsi, a dare qualcosa di sé al casale.

Incontrava Anna Rossi, che recitava un testo sul DOLORE, e lavava delle pietre con  gesto ripetitivo, fatto di pazienza infinita.  Insegnava che la METAMORFOSI esige dedizione, anche fatica fisica. Per trasformare la materia color carbone, e accedere alla Trasmutazione alchemica, non si può evitare un impegno che costa, a volte, alcune lacrime. E sudore.

Maria “Pelle d’acciaio” ha dato ai viaggiatori la sua esperienza di vita dura e tenace, vissuta all’ombra di un atteggiamento poetico costante. La sua vita è arte.
Nella sua stanza c’erano pere marcite, fotografie di quando erano ancora fresche, ricordi della sua esperienza in fabbrica a smistare frutta.
Lei affondava le mani e la voce nelle storie della TRASFORMAZIONE più radicale, che porta al disfacimento, alla MORTE.

Nel processo di METAMORFOSI deve trovar spazio, per riequilibrare, per sollevare chi si mette in gioco, la LEGGEREZZA.

La saggia Laura Riviello, nello spazio seguente, come i Mentori che appaiono nei miti, nelle fiabe a prestare soccorso all’EROE,  regalava al viaggiatore un talismano per aiutarlo a procedere nel suo percorso personale. Ogni visitatore poteva scegliere fra più ricette – la ricetta della FELICITA’, della RESILIENZA, e così via – e portava via con sé gli ingredienti del CORAGGIO, o dell’AMORE per poterla realizzare, in un magico sacchetto.

Poi veniva il turno di incontrare Antonella Laterza, che rappresentava la METAMORFOSI della materia fisica, dava istruzioni per comprendere i cambiamenti del corpo, citava l’ipotalamo, mostrava disegni; ma non dimenticava di citare le stelle.
Lei regalava a chi arrivava il dono prezioso dell’IRONIA.

Ed ecco la nostra CANTADORA Giovanna Simoni che, tramite le parole de “Le città invisibili”, ci ricordava che la strada che si sta seguendo per TRASFORMARSI, con SACRIFICIO, DOLORE, CONSAPEVOLEZZA, LEGGEREZZA, non risparmia biforcazioni, crocicchi. Questo porta continuamente al fiorire di dilemmi, di dubbi.
Infinite possibilità sono generate da ogni nostra piccola decisione.
Chi percorre la via del cambiamento deve sentire come far la propria SCELTA, scegliere la direzione.

E poi, si incontrava Karin Dolin, che, sporca di colori e di vita dipingeva un murale: le figure di due bambini. diventati grandi amici, le cui vite sono intrecciate in modo profondo alla storia del casale. Karin, che con la sua anima d’artista ha TRASFORMATO la Selvatica portando i suoi colori, i suoi messaggi.

Nella stanza seguente, il visitatore andava a trovare l’ABISSO. Una stanza magica e suggestiva, dove si doveva semplicemente “stare”. Sperimentare la parte di sé che desidera uno spazio più grande di quello che permette il rumore della vita quotidiana fatta di fretta e di muri. Giulia Sacchi ed Eleonora Busi erano le madrine di quel momento largo, e lo facevano vivere con parole sussurrate e brevi suoni che aprono la percezione.
Il rischio, però, è di stare in contatto con l’ombra; che tutti noi proviamo, a volte, a schivare, a non guardare. Non si deve avere paura di scavare a fondo.
La METAMORFOSI necessita di un contatto con l’ombra. La Qabbalah consiglia che non debba essere né troppo breve, né troppo lungo perché sortisca effetti benefici.

Si giungeva alla stanza del tè. La METAMORFOSI si accostava al RITUALE.
Un bellissimo allestimento fatto da Emanuela Vecchi con stoffe e arredi semplici rendeva lo spazio una sorta di mondo iperuranio. Emanuela ed io, offrendo il tè, mentre una voce registrata interpretava un brano di poesia di Peter Handke che poneva domande sul senso della vita, creavamo con poche parole e gesti misurati un luogo di presa di consapevolezza, o semplicemente di pace e di armonia, dove si alludeva per brevi cenni e annotazioni verbali alla cerimonia del tè giapponese, al wabi-sabi, la meditazione sulla bellezza delle piccole cose, o alla bassa entrata concepita nelle  antiche stanze del tè per costringere i partecipanti ad inginocchiarsi in segno di umiltà.

Il visitatore si preparava alle scene finali dello spettacolo: Maria Ramirez, nell’ultima stanza raccontava la sua storia personale, familiare, intensa e forte.
Sembrava dire a chi ascoltava, narrando in spagnolo e accompagnandosi con la musica: ho imparato a prendere posizione, a liberarmi dagli schemi e dai condizionamenti per agire.
Ho agito come agiscono i guerrieri.
Nella sua storia ognuno poteva riconoscersi o, da essa, trarre ispirazione.

Il finale è stato esplosivo, forse una catarsi, o un rivivere le fasi della METAMORFOSI.

Un bellissimo spettacolo di sonorità e performance, grande energia della Donna Serpente, che prendeva forza e coraggio dalla terra.
Gli stupendi suoni ipnotici di Cinzia Zaccaroni e il gesto teatrale di Giulia Galiera hanno chiuso il viaggio, che è continuato, per chi lo desiderava, a tavola, con il cibo preparato da Renzo con amore.

E” solo l’amore che, chi sa e chi può dare e ricevere, porta in luoghi speciali, preziosi.
La Selvatica è uno di questi luoghi, e io ho avuto ed ho la fortuna di conoscerlo.

Grazie, come sempre, per aver condiviso.
Grazie a Daniele Dencs per la sua partecipazione e le sue opere (Dirùpators)

Il mercante di Venezia di Massimiliano Civica. Come una Medea

recensione del 20 febbraio 2008 

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Il mercante di Venezia
di William Shakespeare

uno spettacolo di Massimiliano Civica
con Elena Borgogni, Oscar De Summa, Mirko Feliziani, Angelo Romagnoli
maschere realizzate da Andrea Cavarra

Ho visto Il mercante di Venezia, ieri sera, a Parma.
Sala nera, elementi scenici ridotti a meno dell’ossatura di una scena.

Quello che Massimiliano Civica ottiene e’ la creazione di uno spazio vuoto, uno spazio meditativo, sgombro; l’impatto di ogni azione lievita. Aumenta la consistenza di ogni dettaglio, dei sussurri, dei mezzi sguardi o dell’opacita’ dell’indifferenza ostentata.

Aumenta, il carico per l’attore, cresce la temperatura del suo investimento. Si mette a disposizione della messa in scena totalmente, come una marionetta, ma al tempo stesso e’responsabilizzato, e non poco.

Nello spazio meditativo, gli opposti si avvicinano, si mischiano. Dall’energia trattenuta deriva forza; dagli ostacoli rituali allo svolgersi di un grande amore, passione o incitamento all’azione; non manca la prova iniziatica, o piu’ d’una; e il tradimento della promessa puo’ cambiare il segno e divenire un’occasione di rafforzamento del patto.

La recitazione degli attori assume per Civica un’importanza straordinaria.
Quattro sono le direzioni, quattro gli elementi. Dei quattro grandi Arcangeli, si narra che uno abbia sembianze femminili.

I quattro attori sono quattro danzatori, o quattro carte dei tarocchi scelte fra i simboli degli arcani principali; perche’ possa generare piu’ storie, l’archetipo; quattro pedine degli scacchi;
se chiudevo gli occhi, mentre ascoltavo, potevo vedere le linee invisibili di una scacchiera surreale sul pavimento di passi.

Il tutto e’ anche una metafora, rappresentata con una delicatezza che sfida la legge della gravita’, della condizione Umana (lo suggerisce da millenni, il mistico Shakespeare, che cosi’ tante volte si gira nel suo letto e si distrae dal sonno dei giusti per colpa dei registi); l’Attore, quando si muove nel circuito di eventi piu’ grandi di lui e della sua capacita’ di decisione, assume posture contratte, un movimento meccanico e grottesco (i mori dell’orologio di Venezia); ma nel momento in cui i circuiti del Fato si allentano; arrivati poco discosti dalle brecce del Destino dove si apre, se pur per pochi attimi, la possibilita’ della Scelta puo’, se lo desidera, riprendersi la sua espressivita’.

La ripetizione meccanica di alcuni gesti e’ ribadita a livelli piu’ alti della struttura, sul piano testuale e su quello musicale.

Le maschere sono usate con cautela, in una piece che non tocca mai l’eccesso. Non manca l’ironia; forte la parte del testo detto dall’affascinante e atona Elena Borgogni, quando descrive le pecche degli aspiranti alla sua mano.

Nerissa
– E il giovane Tedesco,
il nipote del Duca di Sassonia,
vi piace?

Porzia
– Molto poco la mattina,
quando e’ in se’, assai meno il pomeriggio
quando ha bevuto. Quand’e’ nel suo meglio
e’ un po’ peggio d’un uomo; nel suo peggio
e’ poco superiore ad una bestia.
E se proprio dovesse capitarmi
il peggio che mi possa capitare,
spero tanto d’aver come disfarmene.

Spettacolo intrigante, intelligente, essenziale.

Lovecar, Macellerie Pasolini, Ennio Ruffolo

 

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Love Car (Macellerie Pasolini)

Le discipline del corpo e le regolazioni della popolazione costituiscono i due poli intorno ai quali si e’ sviluppata l’organizzazione del potere sulla vita.
M. Foucault, La volontà di sapere

Ho visto Love Car a Bologna, lo scorso giugno, nel corso della rassegna perAspera. Drammaturgie possibili. Dietro le quinte di Macellerie Pasolini, c’è il regista-drammaturgo Ennio Ruffolo che dirige anche artisticamente perAspera.

Finalmente una performance-installazione che, a differenza di quello che si vede in molti eventi contraddistinti dalla contaminazione fra teatro e altri media è carica di significato ma priva di pedanteria risultando poetica, sognante, dura.

Il set della scena è l’abitacolo di una multipla. L’unità dello spazio è data dall’interno dell’auto, da cui i protagonisti della pièce non escono mai.

Un uomo e una donna (Cristina Matta e Romano Tre Re’) nell’arco dei circa venticinque minuti trascorrono un’esistenza intera, quella della loro relazione.

Una voce registrata porta fuori scena il messaggio dell’atrocità di una vita attaccata al respiratore, che non è vita.

Altri suoni registrati, folgoranti citazioni di dialoghi film sono mandati ‘in onda’. La colonna sonora di Love Car non è solo uno sfondo, è semanticamente parte integrante dell’opera.

L’uomo ha i capelli bianchi e il viso segnato, la donna non è bella secondo canoni estetici standard; fortemente espressiva la spontaneità dei movimenti femminili, spigliati e timidi al tempo stesso.

La pienezza ‘fuori moda’ delle forme della donna, le rughe dell’uomo raccontano qualcosa di importante, della bellezza dei corpi “non omologati”.

Non è solo un marchio la dicitura: Macellerie Pasolini, il rimando alla poetica dello scrittore è chiaro, fosse anche soltanto per questa scelta.

Tutto potrebbe sembrare ridotto alla rappresentazione di un’intimità coniugale in cui il pubblico è meramente voyeur, ma è proprio il discorso del reality che qui è completamente rovesciato, perché  l’empatia dello spettatore verso la situazione è corretta dalla pulizia dei gesti dei protagonisti, non affidati al caso né improvvisati; al moltiplicarsi delle valenze simboliche degli oggetti presenti o dei movimenti degli attori (che si ripetono, a distanza, per due volte), che lo spettatore può impegnarsi, se lo desidera, a cercare, individuando diversi livelli di lettura dell’opera.

Sul canovaccio di una regia esatta, e a causa della presenza simbolica di pochi oggetti, un pettine, le chiavi dell’auto, un telone di plastica, nasce per il pubblico la condivisione della vita della coppia e la commozione si trasforma in riflessione.

L’assenza del sonoro nel dialogo fra i coniugi da’ ai loro gesti una pienezza quasi perturbante.

Le tracce di una vita in cui sono presenti l’amore, la confidenza, il rischio, quindi, del dolore e della perdita: questi devono essere gli elementi fondamentali dell’idioma con cui si può affrontare anche la problematica della vita sospesa, della vita attaccata alle macchine; ne’ le parole dei dogmatismi ideologici, né le fredde terminologie mediche possono sostituirsi al linguaggio vivente e articolato dei sentimenti.

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