Il golfo di Baratti a fine aprile. La magia e il silenzio

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Grazie alla generosità di Patrizia Di Campli, artista e sognatrice – che oltretutto è una incredibile Viaggiatrice, ho scoperto una terra immersa ancora nel suo passato etrusco, splendidamente selvaggia, che come diceva Giovanni, il gestore della Pensione Alba, chiede silenzio e rispetto.
Noi, silenzio e rispetto le abbiamo dedicato, e quindi abbiamo ricevuto i suoi doni.

Ogni persona incontrata, ritagliata come figurina nella bassa stagione, delineata dal paesaggio “barbarico”, vicino pochi ristoranti e chioschi ben curati, era come portatrice di un messaggio.

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Viaggiare dentro i propri sogni, nei sogni degli altri, non lo possono fare tutti.

Non bisogna illudersi che tutti possano avere la fortuna di ascoltare la ricetta data del polpo al vino con una lingua così musicale.
Patrizia ha ottenuto il codice numerico di un guru guardiano dentro un giardino di latta e oggetti raccolti da una vita per aprire un cancello segreto.
Un uomo si ferma accanto alla cappella del Vescovo di San Cerbone per parlare con noi.

Un pittore sulla spiaggia dipinge la sua Baratti.

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Il cibo toscano è semplice e buonissimo.
Una donna ricostruisce giardini di piante etrusche, e vive dentro una casa di terra pressata.
Vicine alla necropoli, sotto la magica acropoli di Populonia  che abbiamo visitato per ripararci dal vento di una primavera indecisa, abbiamo trascorso giorni preziosi.
Grazie ancora Patrizia Di Campli e grazie a Baratti.

 

A San Masseo con Padre Paul, Francesca e Sandra. I nostri vent’anni ad Assisi

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Mio padre era già morto, e transitavo dal misticismo cattolico dell’infanzia alla convinzione di essere atea. Sorrido.
Il principio degli anni novanta e due eretiche come me, incontrate all’Università di Lecce, Lettere e Filosofia. Francesca e Sandra. Francesca, una potenziale scrittrice, donna di teatro, selvatica e intensa “cercatrice”. Sandra era la filosofa, perché portata all’astrazione; magica: percettiva, sensibile. Ci raccontavamo i nostri sogni, afferravamo a manciate la poesia ogni giorno, insieme.

L’ateneo era terreno fecondo per incontri di questo genere, fucina di personalità pure, intelligenti, che pensavano, e pensano oggi come allora, fuori dagli schemi.

Un giorno, sulle scale dell’Ex GIL una ragazza, la leader dei CIELLE, mi prospettò una settimana ad Assisi…abilmente, tracciò il disegno affascinante di un monastero immerso nel verde.

depositphotos_89597518-stock-photo-beautiful-view-of-rolling-hillsConvinsi le mie amiche a partire, sembrava una situazione adatta al nostro temperamento; e costava poco.
Già in treno ci guardavamo perplesse e vagamente spaventate dalle canti di chiesa cantati schitarrando ad alta voce dal gruppo negli scompartimenti vintage.

Poi, inorridimmo, arrivando a Santa Maria degli Angeli, perché la nostra destinazione in realtà era una specie di carcere “motivazionale” dove avremmo dovuto seguire una specie di redenzione obbligatoria. Altrimenti, saremmo bruciate all’inferno.

Ci consultammo, disperate, dopo aver avuto un crollo emotivo. Ricordo Francesca accasciata su una panchina.
– “Dopo la gita collettiva ad Assisi di domattina, fuggiremo” – decidemmo come i tre moschettieri di Francia prima di un attacco al nemico, le tre mani una sopra l’altra.

La mattina, quindi, seguimmo svogliate il corteo dei giovani ipercredenti fino ad Assisi. Poi, non ricordo come accadde, io mi trovai da sola, come in un sogno, accanto a una suorina a cui parlai delle mie ellissi esistenziali.

Intanto un monaco francescano magro e affascinante, Padre Paul, stava finendo di parlare alla folla composta dai miei compagni di viaggio, e lei me lo presentò.

Lui ed io scendemmo giù da una collina estiva con un sole gigante che le stava correndo dietro. Lui era americano, un passato da alcolista, da uomo di teatro. Poi, la conversione. Vieni a San Masseo, disse, è il posto per te.

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Andai a prendere le mie due amiche, avvertimmo i secondini, e la mattina dopo ci trasferimmo in un posto dove si coltivava la terra, si mangiavano i suoi frutti, si viveva con persone di ogni religione, e la mattina si andava attraverso un sentiero polveroso ad ascoltare le Lodi Mattutine dentro una piccola cappella commovente del secolo mille, nella luce incerta e confortante di candele di cera d’api e misticismo.

Due settimane a rinvigorirci a San Masseo, a respirare aria di avventura, nuove atmosfere, che si intonavano perfettamente ai nostri  cappelli di paglia.
A ignorare le mosche, a mangiare minestrone da pentoloni enormi, e il pane impastato e infornato dalle nostre mani.

E Padre Paul mi consigliò di sconfiggere il mio cuore, diventato di pietra – citandomi il passo evangelico – schiacciato da un passato che me l’aveva pestato, amaro e oscuro.

Parigi per la prima volta. Montparnasse

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Il sole si è nascosto quando oggi ho raggiunto il cimitero di Montparnasse. Chi va a trovare Marguerite Yourcenar porta una penna, che bello. Chi va a salutare Sartre e la Beauvoir, sepolti insieme, lascia il biglietto della metro sotto un sassolino, e fiori che seccano senza fretta, nella canicola di luglio. Da Serge Gainsbourg c’è sempre qualcuno; passata da lui, ho continuato la promenade con la colonna sonora “Je t’aime, moi non plus” in testa almeno fino all’uscita. Di Montparnasse ho schivato la tour, questo alto mostro freddo; non mi affascina.

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Il Marché de la création d’estate, mi ha detto una signora, è sguarnito, quello che ho visto ieri mi è sembrato una vetrina artificiale, piena di croste e poche tele “d’autore”. Naturalmente ho cercato i caffè. Accanto alla Rotonde ho visto un ristorante dedicato ai Soprano; un accostamento davvero kitsch ! se non fosse però che gli scrittori dei Soprano sono i Proust di oggi, e le sperimentazioni artistiche forti negli anni 2000 si fanno proprio con le serie tv di livello. Ho spiegato ai camerieri i dettagli della morte di James Gandolfini, che morì nel 2012 a Roma per aver mangiato troppo.
Di Parigi ho appena scalfito la buccia, visitando i luoghi incountornables, i preferiti, i classici; ma ieri ho intravisto la vita profonda della città, quando sono andata in “pellegrinaggio” alla Ruche, passage de Daintzig. Nei primi decenni del novecento hanno lavorato e abitato qui, tra gli altri Soutine, Léger, Shapiro, Brancusi, Zadkine, Chagall, Gimond. La Ruche era chiusa, ma era aperta una mostra; ho conosciuto Caroline, che abita alla Ruche: è una pittrice. Mi ha raccontato che ogni mese espone uno dei sessanta artisti che vivono alla Ruche. Mi ha detto anche che via Montreux è piena di atelier, e mi ha invitato a tornare a ottobre: saranno tutti aperti.

Piccolo diario “Parigi per la prima volta”

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Parigi, 24 luglio 2018

Lo sapevo prima di farlo, sapevo che si trattava di un atto psicomagico, di andare a cercare i “café”. Ne sono stata felice, comunque. Lo sappiamo già che i due caffè in competizione soprattutto a partire dagli anni ’30, Le Flore e Les deux Magots, oggi sono solo simulacri superficiali di quello che sono stati, come è successo con tutti i caffè letterari di Parigi e d’Europa, Le giubbe rosse, il Florian, e tanti altri.

Locali tirati a lucido, generatori astuti di profitto, sfruttano bene un nome rimasto importante. Il Flore riuscì a catturare gradualmente la coppia Beauvoir e Sartre grazie  sopratutto a due elementi: potevano restare anche tutto il giorno senza consumare, a studiare e a scrivere; e godevano del calore di una stufa; a casa faceva freddo. I due grossi nomi riuscirono a convogliare molti intellettuali celebri, e Les deux Magots perse terreno.

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Ho pranzato al Café de Flore, cercando nel locale troppo ristrutturato – in modo solo vagamente retrò – tracce del passato: le ho trovate, alla fine, nella toilette, rimasta quasi intatta, pavimenti e muri d’epoca. Una specie di sorriso ammiccante del Flore, quasi a dire: non è proprio finita. E’ finita l’era dei caffè letterari, gli artisti sono dispersi, vivono in solitudine, ma ce ne sono ancora.
Le opere degli scrittori; ma anche dei pittori, ad esempio, si devono cercare in altri luoghi, in case, soffitte, città sparse in tutto il globo, non certo nelle decine di gallerie in Rue des Beax Arts e dintorni, vetrine del nulla. Anche a Parigi, ma non nei vecchi posti. Sapevo che il quartiere degli artisti non esiste più: ne restano a funebre ricordo targhe malinconiche. E il quartiere latino adiacente è un localificio grandissimo, pronto a sfamare bocche di turisti continuamente avidi di bere e assaggiare cibo.

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Turisti già sazi, non bisognosi; non certo di tonnellate di cibo disponibili in ogni angolo. Picasso, Picabia, Modigliani, Hemingway, loro sì che, ai loro tempi, avevano veramente fame.