Preparo la valigia: sto per partire per il viaggio più importante della mia esistenza.
Si presenta bene: è di cuoio lucido e un po’ logoro – come la mia vita, del resto.
Vi infilo dentro una polaroid scattata nei giorni dell’abbandono.
Nella foto rivedo lo sguardo che aveva mio padre un pomeriggio di vent’anni fa, prima di morire. Aggiungo una busta bianca che contiene il suo addio.
Dal cassettone di ciliegio prendo una sciarpa di lana rossa: è quella che smarrì la mia anima gemella la sera in cui mi rivelò che lo spaventava un amore così grande.
La sua paura era immensa, pari soltanto a quella che provavo io per una storia assoluta, mortale.
Nell’armadio trovo una bambola di pezza; è un dono di mia nipote, che l’ha cucita a sette anni con le piccole dita, perché non rimanessi mai senza compagnia.
La poso delicatamente nella valigia.
Metto per ultimi, nel bagaglio, un paio di scarpe, e un libro.
Le scarpe, le ho comprate al mercato delle pulci di Saint- Ouen di Parigi il giorno in cui ho scritto la mia prima poesia.
Il libro è un romanzo perfetto, opera del mio scrittore preferito – se non l’avessi letto non sarei quella che sono.
Al di là della strada, col motore acceso, mi aspetta un taxi bianco e lucente.
Mentre sollevo la valigia sento che è pesante come un masso che rotola da una montagna. Trascino a fatica il bagaglio fino agli argini del fiume che scorre davanti la mia casa, e scaravento il contenuto della valigia di sotto.
Scompaiono in un lampo gli oggetti nel vortice cieco dell’acqua. Sorrido all’autista, lui mi sorride; affido la valigia nelle sue mani.
Adesso sì, vorrei partire; infine, posso prendere il volo.