Marco Omissis, natale, cartavelina, la ragazza di stoppia

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Così cominciò. Credevo fosse natale. Lui sedeva accanto a Silvia – occhi – sbarrati. Silvia, dell’Odissea in tv notava solo i vestiti delle attrici. Portava una giacca di velluto nero. Capelli secchi al tatto. Bel portamento. Marco Morrison sedeva a tavola con un’estranea: me, gli amici fluttuavano intorno. Carta da parati.
I test di cartavelina. C’è un corridoio mi disse Marco con voce d’attore, molto prima che gli regalassi quell’angelo di terracotta non dipinta, tu devi dirmi cosa vedi . Prospettiva. Apro un sinistro ascensore, sbarre di metallo freddo con tutte e due le mani. La porta gialla. Un tubo a neon, dissi, stanza vuota, fredda, bianca. Assenza di voce animale, fiori bruciati prima di uscire dalla pelle. La porta rossa.

Una cantina calda, due stanze comunicanti, il fuoco acceso, gnomi divertiti che entrano ed escono da piccoli archi nella pietra sollevando vassoi. Delizie di pasti. Cuscini soffici votati al martirio degli abbracci. La porta verde. Una mongolfiera in lontananza, dal corpetto rosa. Uomini primordiali sullo sfondo. Lontananze, t’ho detto! La porta nera. Una cupola di vetro enorme in una stanza da letto. Un albero schiaffeggia l’aria come un fantasma. L’albero copre con rami fastosi il cielo. Non si riesce a vedere. Ma dall’incrinatura del vetro leggermente ferito è entrata una foglia secca.

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Da lì si comincia, dalla foglia, dalla mummia regale accartocciata, immensa sul pavimento vuoto, come dai sogni si cuoce per l’analisi un dettaglio, non lo specchietto d’allodole di un grande mito raccontato solo per sviarci (così ridono di noi gli dei).

Silvia, destinata da lì a poco a essere rimossa in foto dalla testata del letto del poeta, s’intromise acuta e sgambettò fra le parole a goniometro…che avevano inaugurato sentieri di siepe.

Ma non riusciva a far desistere i calici che si dettero schioccando un brindisi inaugurale.

Fu lui a spiegarmi per primo che vedo solo attraverso simboli. Fu lui l’assassino del rito del bagno nella vasca di marmo. Una sera mi chiese di raccontare. Metto delle candele. E poi. La musica, certo. E? L’acqua bollente. Ancora. Prima i polpacci, le gambe. Lentezza infinitesimale. Narrai tutto. Mi ascoltava sempre, viveva appollaiato sulla bocca, profondo come il pacifico. Mi mostrava a me stessa.

Estraeva il narciso come polpa, ferendomi quasi gli occhi.
Con orrore mi svegliai il giorno dopo: avevo ucciso il mio rito, parlandone. Ancora oggi, non posso più consumarlo come facevo prima del tempo di Marco –
versandogli il malto delle parole sfilacciai quel velluto teso fra me e la mia fronte.

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Oggi, per sempre, gli occhi invisibili disinnescano la mia solitudine.
Seguono il mio appressarmi all’acqua.
Respiro caldo di cenere.
E lui spegne ancora, diafano, tutte le candele.

Le mani massacrate di Victor Jara

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Quando trascinarono Victor Jara allo stadio di Santiago del Cile l’11 settembre del 1973, per alcuni uomini non vestiti di colori chiari, in quel paese, fu un giorno di gioia.

Il nome di Victor era iscritto nelle liste degli sgraditi da molto tempo, ai primi posti sui quaderni della muerte di Pinochet e fra l’11 e il 16 settembre il celebre poeta (cantante, autore teatrale) visse la sua agonia.

La sua storia è stata tramandata anche da molti gruppi musicali, fra cui gli Inti Illimani; c’e’ un bel libro di Claudio Fava, La notte in cui Victor non cantò, della Baldini e Castoldi; la moglie di Victor, Joan, ha recentemente scritto un libro con prefazione di Sepulveda, caro amico di Victor.

“Non riuscivo a tornare a fare la vita da signora inglese- dichiara la donna- sono tornata in Cile”

La madre di Victor, donna sola, con pochi mezzi ma piena di spirito, gli insegnò a suonare la chitarra.

“Mia madre mi ha insegnato a cantare”, ricordava Victor.

Una madre gli regalò dunque i chiodi con cui lo avrebbero appeso alla sua croce, come accade in antichi riti di iniziazione quasi dimenticati. Victor dal ’66 infastidisce il Potere, canta; è bello, intelligente, pieno di calore umano, è amato dal pueblo, come si fa?

Nello stadio dei pestaggi e delle esecuzioni dei giorni dopo il golpe avviene poi quel gesto di sadismo che ha scatenato poi la fantasia, se pur dolente, di gruppi musicali, biografi, dei suoi amici, del popolo amato e ridotto in schiavitù’ dall’anticristo Pinochet:

a Victor Jara hanno massacrato le mani.

Sebastiano Gulisano, un giornalista siciliano, uno che pratica resistenza scrivendo e operando in Italia da vent’anni, mi raccontava tempo fa: gliel’hanno tagliate.

…ritrovo nel libro di Fava la stessa espressione.

In realtà la moglie di Victor, Joan, che lo cercò un giorno fra i cadaveri ammassati nello stadio, che ora – da poco, in verità- è intitolato a Victor Jara, parla di angolazioni strane delle mani maciullate da chissà quali abusi.

Ma la sostanza del discorso non cambia. Il Potere non vedeva l’ora, letteralmente, di fermare quelle mani, di congelarle, di sputarci sopra. Certi Poteri, per la struttura interna che li genera e li motiva, odiano la Bellezza e la creatività’ profonda, odiano la vitalità’.

Cosi’ descrive l’epifania nera del corpo di Victor la moglie:

“Siamo saliti al secondo piano, dove erano gli uffici amministrativi e, in un lungo corridoio, ho trovato il corpo di Vìctor in una fila di una settantina di cadaveri. La maggior parte erano giovani e tutti mostravano segni di violenze e di ferite da proiettile. Quello di Victor era il più contorto. Aveva i pantaloni attorcigliati alle caviglie, la camicia rimboccata, le mutande ridotte a strisce dalle coltellate, il petto nudo pieno di piccoli fori, con un’enorme ferita, una cavità, sul lato destro dell’addome, sul fianco. Le mani pendevano con una strana angolatura e distorte; la testa era piena di sangue e di ematomi. Aveva un’espressione di enorme forza, di sfida, gli occhi aperti.”

Il potere, però, a volte esagera.
Non è consigliabile regalare simboli alla plebe, ai musicisti, agli scrittori, alle donne innamorate che perdono il loro compagno.

Quelle mani, tagliate e alianti come in quadro di Chagall, praticano resistenza. Si impongono come pallottole, tramite la forza di un pensiero simbolico. Agiscono in profondità, si inerpicano per le vallate dell’inconscio collettivo e restano per sempre a raccontare un mondo.
Scappano dalla morte.

Lo sanno bene quei dittatori che non giustiziano gli eroi e gli anarchici per non trasformarli in ideali, lo sanno quando cercano, in vita, di screditarli, di spegnere il loro carisma.

Non è consigliabile dare nutrimento ai poeti.

Victor Jara pratica ancora resistenza con le sue mani tagliate, rovesciamento ultimo della bellezza e dell’amore, odio sintetizzato a temperature altissime, invidia della felicità di un uomo che tempestava la chitarra, che parlava agli uomini e che baciava avvolgendola per sempre una donna che ora resiste e prosegue, testimoniando.

Joan Turner salvò fuggendo subito dopo i funerali del marito alcuni nastri delle sue canzoni. Il Potere distrusse tutte le copie di registrazioni rintracciabili – e anche le matrici.

Ma Joan ce le portò.