Il cliente di Asghar Farhadi. Qualche annotazione

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Come Arthur Miller in Morte di un commesso viaggiatore, in questo film il regista, attraverso le vicende di persone comuni apre,scenari di analisi antropologica, economica, sociale. Anche Miller, come Farhadi, racconta di una società che cambia rapidamente, conservando molte contraddizioni fra aspetti di modernità e residui reazionari.

Come Arthur Miller Ashgar Farhadi racconta storie semplici per narrare una parabola morale. E lo fa lasciando lo spettatore nella suspense ben dosata delle verità da scoprire, rivelate gradualmente.

Un incipit forte: l’uscita frettolosa di molte persone da un palazzo che sta per crollare, una ruspa inquietante che forse ne mina le fondamenta.
In un’altra casa, che dovrebbe essere sicura, una porta lasciata aperta con noncuranza da Raana, la protagonista, metterà a rischio la vita familiare, minaccerà la riuscita della piàce teatrale che i due coniugi stanno mettendo in scena con collaboratori e amici.

La crepa nei vetri, la porta lasciata aperta, la porta chiusa dell’ex affittuaria dell’appartamento. La pioggia che danneggia i mobili di una donna che non comparirà mai nel film, ma dalla cui esistenza derivano delle conseguenze che sono alla base della storia narrata. Un cellulare, le chiavi e le banconote dimenticate. I maccheroni da buttare, perchè comprati con soldi sporchi. Piccoli oggetti, piccole situazioni aprono falle dappertutto, e mostrano la natura dei personaggi sotto la facciata calma delle vite ordinarie.

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Così Emad, il professore, esponente della giovane borghesia di Teheran moderna e liberale, uomo di teatro, amante dei libri, il cui lavoro è elevare le coscienze di ragazzi, si rivela in realtà un “conservatore”e, dopo la messa in pericolo dall’esterno del suo piccolo mondo, mostra un desiderio di vendetta inarrestabile, e poca comprensione ed empatia per il disagio della sua compagna.

Il regista, pur girando quasi tutto in interni: il palco dello spettacolo teatrale, le due case della coppia, il negozio del pane, un ospedale; e poco in esterna, riesce a darci una visione ampia della vita in Iran soprattutto attraverso lo sguardo dei vicini di casa; un vicino dà parere favorevole alla mancata denuncia della donna all’aggressione subita, alludendo al fatto che. forse, la donna non sarebbe creduta. Ha lasciato lei la porta aperta, in fondo. Sembra dire: non è comportamento da donna perbene.
Qualcuno dice che vorrebbe dare una lezione all’uomo, se si presentasse.
Si mette in rilievo, per tutto il tempo, il dissidio fra maschera sociale e natura umana nascosta sotto, feroce, o meschina, o puritana che sia.
Non è casuale che Raana, prima di fare la famosa doccia, si tolga il trucco teatrale pesante dal viso.

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Anche l’aggressore rischia di crollare soprattutto perchè teme che la sua famiglia scoprirà di cosa è capace; ha il terrore di rompere il patto delle convenzioni, se si scoprisse che ha agito seguendo “una tentazione”.

Con poche battute frettolose, senza insistere sull’argomento, il regista ci dà notizia delle censure operate dalle autorità sulla pièce teatrale.
Poche battute, ancora una breve e forte pennellata che descrive cosa sia l’Iran oggi.

Alcune annotazioni su “Un padre, una figlia”di Cristian Mungiu

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“Un padre, una figlia”, è l’ultimo lavoro cinematografico di Cristian Mungiu. L’architettura del film di Mungiu è un capolavoro. La sua regia è sommessa, delicata, in apparenza – a un prima superficiale visione – analitica, incapace di essere e di fare sintesi. Lunghi dialoghi pacati, lunghe azioni; il regista non ha nessuna fretta di fare scorrere la storia, raccontando fin nei dettagli la quotidianità in primis di una famiglia, quella del protagonista assoluto del film, il medico Romeo Aldea, che veste i panni dell’eroe (e di antieroe, ma in questo film è saggio evitare i giudizi tranchant) della storia.

Una ventennale vita familiare sostenuta da abitudini, sentimenti e anche ipocrisie e gesti di facciata, ma comunque solida e stabile, comincia ad essere afflitta da una lenta e inarrestabile instabilità.

E’ stato raggiunto, da qualche parte, il famoso punto di rottura; preannunciato anche simbolicamente dall’arrivo dal “mondo di fuori” di un sasso che spacca la finestra dell’appartamento dove abita la famiglia. Nessuno scoprirà chi sia l’autore di questo e di altri gesti vandalici. Ci viene in mente “Niente da nascondere (Caché), di Michael Haneke” e le videocassette ricevute in forma anonima da un Auteuil straordinario (in modo bizzarro, durante il film, ho pensato che oltre allo straordinario attore Adrian Titieni anche Auteuil avrebbe potuto interpretare questo ruolo di padre, marito, amante, medico, con il suo viso contraddittorio, adatto a tutte le sfumature della perplessità, del disappunto, della difficoltà a comunicare nelle relazioni interpersonali).

Mi piace il modo che ha quest’opera di trascrivere e portare sulla pellicola il non detto della trama, che non viene trattato se non per brevi accenni, come la storia di Romeo e di Magda, la moglie; di quando, nel 91, hanno deciso di tornare dall’Europa tentando, in un momento storico cruciale per la Romania e per l’Europa dell’Est in generale, di cambiare le cose e dare il loro contributo attivo al paese dopo la caduta del regime comunista.

Brecce di senso si aprono dappertutto e arrivano allo spettatore subito e anche molto dopo avere visto il film. Immagini apparentemente ordinarie sono usate come forti simboli: ad esempio, l’inquadratura della telecamera su scaffali con libri ammassati e impolverati. I libri hanno l’aria di essere una sorta di residuato bellico; sembrano oggetti antiquati; avevano avuto, un tempo, la pretesa di esprimere una cultura in grado di modificare il corso della storia. Invece, la loro funzione si è rivelata inadeguata e quasi obsoleta rispetto al cammino veloce di una società che si disgrega.

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All’immagine della biblioteca si collega il profondo senso di fallimento di Magda che, alla fine, dice, è riuscita a “essere solo una bibliotecaria”. La classe intellettuale avrebbe voluto cambiare il mondo; non c’è riuscita; ma ecco che Romeo, il medico piccolo- borghese, investe delle sue ultime speranze e di un’aspettativa estrema il destino di sua figlia Eliza, che vorrebbe fare emancipare al posto suo e della moglie, e fare arrivare in Europa, vista come posto mitico, in cui studiare in una scuola prestigiosa  è ancora per le nuove generazioni un mezzo d’elevazione sociale e dell’identità, oltre che fonte di benessere economico.

L’esistenza di Romeo, durante il film, subisce una lenta disgregazione, una metamorfosi angosciante. Un passo dopo l’altro, la sua identità e la sua immagine di uomo ineccepibile vengono messe in discussione, in fondo, soprattutto dalle sue stesse ombre, in risalto su un contesto sociale difficile come quello della Romania di oggi. Microstoria e macrostoria nel film si rovesciano la prima dentro la seconda continuamente.

Mentre nella parte iniziale della narrazione è evidente come il protagonista sia abituato a tenere tutto il suo piccolo mondo sotto un ferreo controllo fatto di volontà e di dedizione alle sue cause personali, alla fine molti segni dimostrano la vanità di questo suo sogno di realizzazione del proprio intento a tutti i costi. La realtà e gli altri attori della scena interagiscono con lui, che lo voglia o meno.

Nella prima parte del film l’occhio la mdp, dall’interno dell’auto, guarda spesso il parabrezza dell’auto di Romeo che la guida per la città; come se l’auto fosse un’altra corazza protettiva che l’uomo sia riuscito a garantire a se stesso e alla sua famiglia fino a quel momento; evitando di parlare alla moglie di quanto il loro matrimonio non esista più; evitando di parlare in modo chiaro all’amante di quanto non voglia impegnarsi in quella relazione secondaria rispetto la prima famiglia, e così via.  Il parabrezza, come la finestra di casa, verrà spaccato da un sasso, e l’uomo, verso la fine del film vagherà a piedi, sempre più inquieto, perdendosi nella periferia della città, inseguendo pensieri di rivalsa verso l’aggressore della figlia che sembra divenire l’uomo nero nascosto nelle maglie dell’inconscio, una figura da incubo, che a tratti perde di consistenza e, come accade per gli altri aspetti del film, diventa anche qualcosa di vasto: l’elemento di delinquenza diffusa in una Romania un po’ allo sbando.

Comunque, come il padre nella famiglia di “Teorema” di Pier Paolo Pasolini, l’armatura sociale e psicologica di Romeo viene messa in discussione. La figura di Romeo ricorda anche il viaggio infernale del protagonista, padre anch’esso della sua Lucy, nel romanzo “Vergogna”, di  Coetzee. Anche in “Un padre, una figlia” il protagonista compie un viaggio esistenziale profondo e doloroso, allontanandosi dalla strada battuta; non in modo così netto come accade nel film di Pasolini o nel romanzo di Coetzee; in modo più lieve, come se tutto accadesse in sordina.

Molti altri elementi della scrittura sono sfumati e rompono il dipanarsi colloquiale e placido delle cose che accadono a Romeo e agli altri protagonisti. Il figlio di Sandra, l’amante di Romeo, balza nella scena per due volte indossando sul viso una maschera che lo fa assomigliare a una straniante e stridente figura mitologica; la sua presenza passa nel film come un monito.

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Porta la maschera come tutte le cose o le persone inconoscibili e deformate dallo sguardo (dalla mancanza di sguardo) di chi non sa e non vuole coglierle, esprime il rifiuto di Romeo a impegnarsi nella relazione con sua madre; la mal disposizione dell’uomo ad accogliere un figlio che non sia quello della prima famiglia che ha costruito. Infatti, solo quando la verità della relazione extraconiugale emerge, e quando Sandra decide di abortire il figlio di Romeo, il ragazzino compare senza maschera, come se ciò seguisse  l’accettazione del protagonista a prendersi il carico di nuove responsabilità e di nuovi legami; forse – ma resta una supposizione da parte nostra –  per una sorta di scambio non pattuito verbalmente con il sacrificio della nuova maternità frustrata di Sandra.

Questa è la qualità notevolissima del film: lasciare molti discorsi aperti. Ci chiederemo, e non avremo risposta, se il ragazzo di Eliza ha davvero visto l’aggressione e non si è fermato. Ci chiederemo se Sandra abbia davvero abortito.  Come sia accaduto che Eliza abbia trovato il padre a casa di Sandra quando ne ha avuto bisogno. Addirittura, non sapremo se l’esame, Eliza l’avrà davvero superato.

Ma i dettagli che per il regista contano sono svelati; come la decisione che prende la figlia, con consapevolezza, rispetto il modo di compilare i test dell’esame di stato.

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Il ritorno di Andrey Zvyagintsev (Russia, 2003)

 

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Il ritorno. In spagnolo el regreso. E tornando all’italiano, viene in mente la parola Regressione.

Sentiamo il bisogno di arginare questo film perché sfugge da tutte le parti, ri-visto dopo qualche anno con maggiore piacere, ma non è piacere, è ammissione un pò controversa sulla poltrona accanto alla propria della presenza del perturbante; è un costante, strisciante accompagnamento di violoncello- che ascoltiamo solo noi.

Intanto la pellicola è virata al blu.

Intanto la fotografia non è serva, ma padrona.
Ma sotto lo strato del tapis roulant magnifico delle scene elargite, le luci usate con sapienza (non è stato un colpo di fortuna il Leone d’oro nel 2003) ruotano molte opere pittoriche.
La prima, facile da associare per riproduzione fedele, non iperealistica (con lenzuolo, che sorpresa- blu), il Cristo morto del Mantegna che torna, più sfuggente, in uno degli ultimi fotogrammi.

La nonna con la mano sul tavolo è ‘ritratto di vecchia’ ripresa quei secondi in più sufficienti a scolpirla.

Le torri dechirichiane sono doppie come il cristo citato.
Le torri dei tarocchi, non scevre di presagi neri. In una si vede la luna bionda, l’altra ospita il sole che si frantuma. Come nei simboli doppi dei sogni.

Il Padre non è cattivo o buono. Qui agiamo prima di distinzioni morali e anche etiche.
Qui si è obbligati a chiamare in causa, volenti o nolenti, il dio Cronos.
La scatola non verrà mai aperta e così mai si conoscerà a fondo quell’uomo ruvido,”analfabeta emotivo”,che è solo arrivato e poi tornato, e che si riesce a chiamare ‘papà’, come nel racconto della Warton ripreso poi da Stephen King in It- soltanto troppo tardi.

– Mamma, da dove arriva?
– E’ arrivato. Dormi.
Aveva risposto la madre nella sottana di seta, prima di andarsi a stendere accanto allo sconosciuto.
Ci era venuto in mente- a tratti- Tarkovskij. Il primo Bertolucci. Dopo queste parole, l’ospite di Teorema.

 

La morte sconcertante subito dopo le riprese- nel lago Ladoga che era stato scenografia- dell?attore adolescente che recita come fratello maggiore allunga altre ombre azzurre sul film.
Bisogna operare un grande sforzo di non immaginazione per non inscriverla nella trama del film, altrimenti si trasforma quest’opera insieme realistica e completamente astratta in un’entità accecante che cerca altri sacrifici. Umani.
E vi è una lunga tradizione planetaria di morti maledette sui set dei film.
Invece, non fu così: fu solo uno spiacevole incidente.

Pier Paolo era paziente, gentile, e metteva la cravatta

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Il mondo non esiste. Non è mai esistito, esiste solo lo sguardo e Pier Paolo Pasolini è nato con uno sguardo straordinario, un Progetto.
Spesso penso a lui, immagino la sua vita disciplinata, scandire i suoi cinquantatré anni concessigli, durante i quali ha compresso molte vite insieme.

Notevole, il suo coraggio, soprattutto se si pensa che il poeta non ha mai avuto “compagni/e” di pensiero. Neppure i suoi amici più cari concordavano con alcune sue centrali visioni.
Pier Paolo ha conosciuto una perfetta solitudine intellettuale e spirituale.

Le interviste, i ricordi di amici e collaboratori insistono sulla voce disciplina quando lo descrivono.
D’altronde anche nelle foto e nelle riprese che lo ritraggono Pier Paolo emana quell’allure di ragazzo bravo, che i compiti li fa e li porta a termine in modo soddisfacente, che era stato un geniale studente, poi un geniale intellettuale militante, che andava a caccia prima in Friuli poi a Roma di lemmi dialettali per poi scrivere i suoi testi, poi leggeva velocemente, divorandoli, i versi dialettali che poteva trovare di tutte le regioni d’Italia, ci scriveva un’introduzione a un’antologia…perchè Pasolini aveva la dote di lavorare a un tema sviscerandolo con molti linguaggi e utilizzandolo per più progetti. Lo faceva rendere, al massimo.

Faceva rendere bene ogni esperienza. Del tempo perduto, appena laureato, in treno come pendolare per raggiungere un umile posto di lavoro ne fece momento cruciale per leggersi alcuni classici mancanti; durante una convalescenza per una brutta ulcera scrisse un numero impressionante di fondamentali testi teatrali, e così via…
Sul lavoro emerse sempre la sua qualità di dedizione, la capacità di affaticarsi sui suoi progetti (non fu casuale certo l’ulcera che si citava che nel 1965 lo fece svenire a una cena “in un lago di sangue”) specie sul set dove il lavoro è “visibile” e dove si punta il dito, perché il regista è padre, è re.

L’unica forma di monarchia veritiera, più o meno questo recitava Coppola, è quella del regista.
Se consideriamo pure che la notte Pier Paolo la passava in larga parte seguendo i suoi “meditati istinti”, a caccia, che fosse in Italia o in certi paesi all’estero, in medio oriente o in India… nonostante questo la mattina, abbastanza presto, a casa della Madre o in albergo lui si metteva a lavorare con accanimento.

Ha trascorso quarantanni a costruire il tracciato di una carriera perfetta. Chi è pasoliniano e vive stretto all’icona assurda e tremenda della morte di Pier Paolo, a volte resta ingenuamente stupito, per straniamento, dalla capacità e dall’efferata pignoleria con cui Pasolini chiese in molte lettere a personaggi influenti piccoli favori, fin da quando era povero maestro a Roma ma anche più tardi, in varie occasioni, per esempio prima di un’elargizione di un prestigioso premio letterario… o cinematografico…

I suoi colletti di camicia di bucato, la cravatta, i completi piccolo-borghesi. La scalata costante, intelligente. L’astuzia di una volpe, seppure di indole amabile. Pier Paolo.

Con il montaggio che la nostra mente compie (come suggerì Pasolini in Empirismo Eretico portando il noto esempio della morte di Kennedy) della vita di Pier Paolo a partire dalla sua morte, scendendo a ritroso, non si può fare a meno di accostare quella montagna di gesti pazienti e accorti che lo incoronarono idolo popolare e gli diedero un certo potere sociale e finalmente un pò di agiatezza economica, alla serie di articoli insopportabili, stilettate alla balena bianca che pubblicò negli ultimi tempi.

Quando di tutto il suo lavoro, della sua fatica, della sua pazienza, andò a riscuotere il compenso. Un compenso del tutto particolare.

Basta leggersi anche solo alcuni interventi, quelli decisivi degli ultimi mesi, e allora chi conosce anche appena quel periodo storico non può fare a meno di pensare (anche se non avesse letto i verbali del processo post-mortem e tutto il resto) che se fosse stato uno di quella gang là, quella del Palazzo di cui Pier Paolo elencava nomi, cognomi e imputazioni, citando soprattutto Andreotti e Fanfani (un brivido ci corre lungo la schiena quando Pier Paolo “salva” nei suoi giudizi solo Aldo Moro, corre l’anno 1975) avrebbe fatto benissimo a sopprimerlo.
A mandare qualcuno..
Era l’unica cosa da fare. La cosa più saggia. The right think, dicono così in America.

“Vergogna” di Coetzee

J. M. Coetzee, Vergogna, Einaudi, 1999

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David si sente pervadere di nuovo dall’apatia e dall’indifferenza, ma anche da una singolare assenza di peso, come se qualcosa l’avesse roso dall’interno lasciando solo il guscio vuoto del suo cuore. Come puo’ un uomo in questo stato, si dice, trovare le parole e la musica per resuscitare i morti?

Forse per gli uomini odiare le donne rende la cosa piu’ eccitante. Tu sei un uomo, dovresti saperlo. Quando hai un rapporto sessuale con una persona che non conosci, quando la intrappoli, la tieni ferma, ti butti su di lei con tutto il tuo peso..non e’ un po’ come ucciderla? Come piantare un coltello?
Per poi andartene lasciandoti dietro un corpo sporco di sangue? Non e’ un po’ come un omicidio? Non ti da’ l’inebriante sensazione di averla passata liscia?”

 

Mi e’ stato difficile terminare Vergogna di J. M. Coetzee. Perche’ l’io narrante e’, con tutte le nostre buone intenzioni di perpetrare una obiettiva lettura,il suono della stessa nostra voce,mentre leggiamo…e come se ci disponessimo di buon grado a un rapporto di sesso occasionale, ci sovrapponiamo ad esso, ci compromettiamo,ci strofiniamo sulla sua pelle…e chi ha voglia di entrare nella sagoma un po’ pendente da una parte, frastornata e lucida di un David Lurie?

David Lurie non e’ un “buono” ne’ un “cattivo”, ne’ perverso, ne’ romantico sebbene in grado di intraprendere per un tratto queste diverse strade.Ha perso il contatto con il se’, lo ripete spesso:

Secca. E’ ormai secca la fonte di ogni cosa, fa dire a Teresa, che ama tanto Byron, personaggio da cui vuole ricavare un’opera lirica.
Ma Byron ha il buon gusto di morire, sulla soglia del disgusto di se’. Lurie, no.

 

Anche prima dell’effrazione alle regole di un sudafrica teso come una corda che Coetzee abbozza soltanto dietro il personaggio con due o tre segni abili, come lui sa fare, David si trovava nel letto di Procuste, brani di se’ sempre da amputare, fra autocompatimento, passione di media caratura, incapacita’ di essere raggiunto dall’esterno da una parola efficace, che gli serva: Lurie non entra in relazione profonda con nessuno dei personaggi che lo circondano e che incontra.

I dialoghi mancano sempre il bersaglio, si spezzettano in rivoli e fraintendimenti, o diventano petulante predica, o silenzi lacrimosi.

Lui e’ capace, si vede, se vuole, di raggiungere posti di rilievo accademico; di coniugarsi e di figliare; pero’ tentennante, inadeguato, sempre qualche cm fuori posto come la giuntura di un omero disarticolata ma che mai si frattura, come la bruciacchiatura da alcol denaturato a cui gli assalitori della figlia danno fuoco, che non lo ustiona completamente ma solo lo adombra.

Qua e la’ affiora il ricordo di una giovinezza piu’ netta, definita, dove i sensi forse parevano nitidi..con Rosalind aveva diviso il letto con una sensualita’ che sfiorava il dolore.

Lurie scrive di Byron e della sua stanchezza nel (non) provare passioni.
Cinismo e romanticismo. “Ama” Melanie come il professore amava Tadzio in Morte a Venezia, e come lui ne muore, ne viene dissolto.

La sua Losung, quella dei cani…

Pasolini si scrisse addosso che vagava come un cane senza padrone (i Motus ne hanno tratto un bellissimo spettacolo) quando attingeva piacere sessuale e ne restava poi dilavato come una “pila” per sbattere e lavare i panni.

Alcuni guaritori per mostrare la mappatura di un’anima che ha subito disastri afferrano una piuma. la sfrondano con le dita aprendone le ali, le squame..e poi tentano di riportarla allo stato iniziale: per dimostrare che non si puo’, non si allinea piu’ perfettamente sull’asse come prima.
Le piume restano scompagnate e in alcuni punti resta il vuoto fra aletta e aletta..
Un po’ quello che si dimostra nella pressante e ruvida narrazione de Il danno della Hart

(Quando si e’ sopravvissuti a un danno…)

Come cani i tre ragazzi stuprano Lucy, che resta cagna sottomessa anche dopo il fatto, fino ad estreme conseguenze..come cagna resta pregna e figliera’ presagendo che dovra’ amare quel bambino, per forza naturale…Lurie non potra’ vendicarla e costringerla a prendere posizione.

Sovrappone quindi “vergogna” e senso del fallimento di tutto un progetto esistenziale a “vergogna”.

Cosi’ arriva a precisarsi, come una manna dal cielo lo sfiatatoio: i cani sotto le mani dell’ex professore e dello psicopompo Bev sono inoltrati con molte carezze (diapason di ambiguita’, stanamento di latenti perversioni/emozioni poco definite, late) verso la morte.

Il caso, se ve fosse uno, resta irrisolto.

Entropie. Basta un ‘incrinatura a volte a fare cominciare la dissoluzione di qualcuno, figurarsi il brusco impatto di qualcosa di acuminato.

Se si smette di percepire il mondo con un suo sentire tutto, compatto. Se il processo e’ innescato, continuera’. Nessun giudizio morale, solo uno sguardo aperto e attento, per cogliere cosa succede.

Forse Lurie e’ fortunato, rispetto a tanti altri. Perche’ e’ riuscito ad allineare il suo mondo interno a quello esterno.

Meno compromessi a cui adempiere. Meno parole adulatorie da distrubuire per mantenere l’impalcatura dei sorrisi. La casa sventrata, pallottoline di carta riceve in testa, se siede in un teatro.

Coetzee sospende il giudizio, incrocia le braccia; c’e’ poca ironia. Lontano da ogni estremo a cui comunque ci si puo’ appigliare per venire su.

Solo lo sguardo aperto e nessuna speranza – per nessuno.
Temperatura narrativa prossima allo zero assoluto.

Ponyo sulla scogliera

(23 novembre 2009)

immagine-tratta-da-ponyo-sulla-scogliera-2008Non è la prima volta che Hayao Miyazaki incentra il suo racconto su un viaggio iniziatico di una bambina preziosa, leale, pura. E’ evidente che si riferisca a una qualità umana astratta, non a una categoria infantile precisa.

Avevamo seguito la storia della crescita interiore di una bambina ne La città incantata e ne Il castello errante di Howl la trasformazione di un ragazzo da narciso in persona capace di empatizzare con gli altri, di amare ed essere amato.

Come in tutte le fiabe (che Miyazaki cita in abbondanza, infatti) il percorso dell’eroe è lungo e frastagliato. I protagonisti hanno difficoltà a comunicare fra di loro, come accade per la madre di Sosuke con un marito sempre in mare. Anche i genitori mitologici di Ponyo sono distanti, se pur profondamente connessi. Questo film è dichiaratamente (emerge anche in un dialoghetto fra i genitori divini di Ponyo) un affascinante studio sulla fiaba della Sirenetta, ma si trovano anche concetti psicanalitici complessi che gli adulti in sala possono provare a decodificare.

Intanto, le trasformazioni della bambina in pesce, in semiumana, in umana. Il sonno accompagna queste metamorfosi, come nella migliore tradizione classica (Orlando della Potter si addormentò per molti giorni prima di trasformarsi in donna). E ancora, affiorano profonde tematiche dell’inconscio, rimandi a possibili rapporti della bambina con il paterno, evidenti nella scena in cui il mago padre fa regredire la figlia, le interrompe la crescita.

Anche il mare è rappresentato come splendido e sereno oppure come territorio oscuro e minaccioso delle forze dell’Es.

Se il mago del mare si è trasformato in uomo pesce per seguire la dea dei mari, la figlia dei due farà il percorso a ritroso. E’ esplicito un riferimento alla rottura del patto fra uomo e natura, infatti il mago desidererebbe eliminare la specie umana corruttrice del pianeta; l’intervento della grande dea è basato sulla compassione, e sull’idea di fare sposare l’umano con l’animale, di fare riconciliare questi elementi in opposizione. Occorrono per consentire questa unione umani dalla mentalità avanzata come la madre di Sosuke che accoglie e nutre un pesce magico senza rimanere chiusa nel recinto della razionalità, che accoglie la magia nell’ordito della propria giornata, che non ha paura della furia degli elementi.

Molto presente, come in altri film, l’elemento cibo. In particolare, la bimbapesce, durante una scena molto lunga, che sembra quasi non indispensabile alla trama incontra la maternità umana, nutre una donna che darà poi il latte al suo neonato.

Comprende così i cicli alimentari e affettivi che mai ha potuto conoscere, essendo nata da una dea e un semidio.

La cinica signora anziana dell’ospizio incarna la diffidenza, le paure delle masse, che rischiano di non fare ricompattare i mondi e di ostacolare una grande riconciliazione (che ricorda tratti dell’opera di Philip Pulmann).

Un’altra favola che balza evidente nella tramatura sottesa a questo bel film e’ quella detta della donna scheletro, in cui un uomo tira su le ossa di una donna, viene spaventato dal carico di dolore che portano ma con la compassione e l’accettazione le restituisce un corpo.

Anche se il regista giapponese ha scritto per questo film soprattutto di due bambini, si parla dell’Amore fra esseri umani di qualsiasi età. E’ l’Amore che può ricomporre il dissidio dei mondi diversi.

Il mercante di Venezia di Massimiliano Civica. Come una Medea

recensione del 20 febbraio 2008 

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Il mercante di Venezia
di William Shakespeare

uno spettacolo di Massimiliano Civica
con Elena Borgogni, Oscar De Summa, Mirko Feliziani, Angelo Romagnoli
maschere realizzate da Andrea Cavarra

Ho visto Il mercante di Venezia, ieri sera, a Parma.
Sala nera, elementi scenici ridotti a meno dell’ossatura di una scena.

Quello che Massimiliano Civica ottiene e’ la creazione di uno spazio vuoto, uno spazio meditativo, sgombro; l’impatto di ogni azione lievita. Aumenta la consistenza di ogni dettaglio, dei sussurri, dei mezzi sguardi o dell’opacita’ dell’indifferenza ostentata.

Aumenta, il carico per l’attore, cresce la temperatura del suo investimento. Si mette a disposizione della messa in scena totalmente, come una marionetta, ma al tempo stesso e’responsabilizzato, e non poco.

Nello spazio meditativo, gli opposti si avvicinano, si mischiano. Dall’energia trattenuta deriva forza; dagli ostacoli rituali allo svolgersi di un grande amore, passione o incitamento all’azione; non manca la prova iniziatica, o piu’ d’una; e il tradimento della promessa puo’ cambiare il segno e divenire un’occasione di rafforzamento del patto.

La recitazione degli attori assume per Civica un’importanza straordinaria.
Quattro sono le direzioni, quattro gli elementi. Dei quattro grandi Arcangeli, si narra che uno abbia sembianze femminili.

I quattro attori sono quattro danzatori, o quattro carte dei tarocchi scelte fra i simboli degli arcani principali; perche’ possa generare piu’ storie, l’archetipo; quattro pedine degli scacchi;
se chiudevo gli occhi, mentre ascoltavo, potevo vedere le linee invisibili di una scacchiera surreale sul pavimento di passi.

Il tutto e’ anche una metafora, rappresentata con una delicatezza che sfida la legge della gravita’, della condizione Umana (lo suggerisce da millenni, il mistico Shakespeare, che cosi’ tante volte si gira nel suo letto e si distrae dal sonno dei giusti per colpa dei registi); l’Attore, quando si muove nel circuito di eventi piu’ grandi di lui e della sua capacita’ di decisione, assume posture contratte, un movimento meccanico e grottesco (i mori dell’orologio di Venezia); ma nel momento in cui i circuiti del Fato si allentano; arrivati poco discosti dalle brecce del Destino dove si apre, se pur per pochi attimi, la possibilita’ della Scelta puo’, se lo desidera, riprendersi la sua espressivita’.

La ripetizione meccanica di alcuni gesti e’ ribadita a livelli piu’ alti della struttura, sul piano testuale e su quello musicale.

Le maschere sono usate con cautela, in una piece che non tocca mai l’eccesso. Non manca l’ironia; forte la parte del testo detto dall’affascinante e atona Elena Borgogni, quando descrive le pecche degli aspiranti alla sua mano.

Nerissa
– E il giovane Tedesco,
il nipote del Duca di Sassonia,
vi piace?

Porzia
– Molto poco la mattina,
quando e’ in se’, assai meno il pomeriggio
quando ha bevuto. Quand’e’ nel suo meglio
e’ un po’ peggio d’un uomo; nel suo peggio
e’ poco superiore ad una bestia.
E se proprio dovesse capitarmi
il peggio che mi possa capitare,
spero tanto d’aver come disfarmene.

Spettacolo intrigante, intelligente, essenziale.

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Lei era grande, buona, generosa, fedele, si chiamava Raissa, era la mia cara grande amica, di Pier Carlo Lava

Il sasso nello stagno di AnGre

insistenze poetico-artistiche per (ri)connettere Cultura & Persona a cura di Angela Greco AnGre

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Paolo Valesio

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