La cospirazione del Cairo di Talik Saleh. Alcune note

D’inverno è davvero confortevole e amabile vedere un film bello come “La cospirazione del Cairo”, consigliato da un amico, in un cinema retrò come il Bellinzona a Bologna. Sono passati alcuni giorni, e la mia potenziale recensione è andata a farsi benedire, quindi dell’intrigante spy story e della parte politica di denuncia di questo coraggioso regista non desidero più riferire. Vi consiglio di vederlo. Chi come Talik Saleh è nato e si è formato a Stoccolma, in pieno occidente, con radici egiziane è destinato a essere un mediatore fra culture. Conosce il paese più di un cittadino che vive in Egitto; lo contempla da lontano e la sua visione è complessa, impellente la sua necessità di raccontarla.

Del film mi è rimasta un’impronta, un’incisione fatta a fuoco sulla pelle, l’idea delle lettere dell’alfabeto arabo. Ma anche dei numeri. La sequenza di Fibonacci nella sezione aurea. Mi sono rimaste delle corrispondenze, come se fossi entrata con tutto il corpo nelle ripetizioni delle arcate della moschea, nelle sue decorazioni.

Le decorazioni delle moschee sono ancora oggi come quelle delle nostre cattedrali romaniche o gotiche, anche se l’Islam vieta le riproduzioni di immagini d’uomo, di animali. E’ lo stesso: le forme astratte come le immagini usate secoli fa in Europa dicono qualcos’altro, parlano di elevazione, di trasformazione. Sono iniziazioni nascoste ed enigmatiche, ma non per il credente.

La stessa materia vivente di luce delle decorazioni, delle arcate, vive nella salmodia dei versi del Corano di un giovane studente dal viso bello come quello di un Mu’aqqibat, un angelo. L’ascolto del canto del Corano si chiama samâ’ e può provocare l’estasi (wajd) in chi lo ascolta.

Del film “La cospirazione del Cairo” mi è rimasta nella coscienza la struttura poetica profonda. Vado ancora più giù (o più su, alto e basso si confondono nella mistica). Il ritmo, le ripetizioni. Non sto parlando solo del canto, o dell’architettura. Ma dei sintagmi delle azioni degli attori, del protagonista principale, Adam. La fine è il principio, il principio è la fine. “Ti farò pescatore di uomini”, disse Gesù a Pietro. Gesù è presente nel Corano come profeta fra gli altri profeti. Adam per l’Islam non è solo il primo uomo, ma il primo profeta, il “nabi”. Il giovane pescatore che cambia il suo destino perché ottiene la borsa di studio per l’università sunnita di Al-Azhar è un eletto, un predestinato. Lungo e articolato, da secoli è il dibattito teologico in Islam per definire il concetto di predestinazione e di libero arbitrio. Le due forze opposte sono presenti in modo pressante nel film di Talik Saleh.

Noi spettatori assistiamo al profondo senso di rassegnazione che spira dal corpo di Adam e dal suo volto dalle linee quasi cubiste. Sin da piccolo ha imparato il mestiere di suo padre pescatore, il padre l’ha imparato da suo padre prima di lui, fin dalla notte lontana dei tempi. La sua passività rassegnata è la stessa che i pescatori devono imparare, la lunga pazienza di aspettare che i pesci cadano nelle reti. Eppure Adam non si attiene al suo destino di vittima del fato. Prenderà la parola, quando sarà il momento, e la parola sarà piena di forza. Gli farà compiere il suo destino e cambierà il destino di una nazione.

Don Lorenzo Milani diceva: “Un operaio conosce 100 parole, il padrone 1000. Per questo lui è il padrone.” Adam ha avuto il tempo di studiare, mentre si barcamenava fra fazioni opposte politiche rischiando la vita propria e dei suoi familiari, e impara fra le altre materie la dialettica.

Così recita una poesia di George Kheirallah in al-Mawâkib:

“…le circostanze ci spingono ad andare avanti

In stretti sentieri scavati da Destino.

Perché ci sono modi che non possiamo cambiare,

mentre la debolezza prega sulla nostra Volontà

ci sosteniamo con pretesti

per aiutarci a non volere uccidere il Fato.”

Il ritmo, le ripetizioni. Le abluzioni rituali che scandiscono tutta la durata del film, che l’azione sia rilassata o violenta, non importa. Si riferiscono a un tempo lento, religioso, non laico. I numeri. Il numero due, il doppio, e il tre. Tre sono gli imam prescelti per l’elezione del Grande Imam, ma due sono quelli veramente in lizza. Due sono gli studenti chiamati “angeli”, ed entrambi rischiano la loro vita (uno la perde). Tutti e due sono amati come figli, uno dal colonnello dei servizi segreti, l’altro dall’imam illuminato e detestato dal regime per la sua saggezza profonda e la libertà di pensiero (cita Marx durante un discorso). Entrambi rischiano la loro posizione e addirittura la pace nella nazione per proteggerli.

Le linee delle arcate di una moschea si susseguono, preparano l’idea dell’infinito. Grandi selciati di pietra chiara riflettono la luce. Luci e ombre, se si concede loro il tempo sufficiente perché si plachino gli animi, perché i confini si dissolvano, perdono i significati aspri della contingenza. Non più luci e ombre, in territori distinti.

Si leva un canto.

Di questo film mi resta l’eco di un canto sublime che fa da ponte fra terra e cielo.

Qualche nota sul Macbeth di Justin Kurzel

“Un pensiero che tortura un uomo sfugge alle condizioni del pensiero; diventa un altro, un parassita.”
(Paul Valery)


Solo qualche nota sul bel film Macbeth del 2015, regia di Justin Kurzel con Michael Fassbender e Marion Cotillard che ho visto su Mubi.
La fluida coerenza fra la fotografia del paesaggio e degli interni e la colonna sonora discreta, che sottolinea di rado, invece che coprire, o allude e accenna, pastosa – sfinisce e usa gli elementi tradizionali della musica scozzese (come il suono delle cornamuse) trasformandoli in segni quasi astratti ma non meno evocativi; e i costumi essenziali dall’aura quasi mitica, nell’apparente semplicità che li rende (e ciò vale per tutto il resto tra l’altro), simboli e non più soltanto abiti e accessori; le inquadrature dei visi non poche volte frontali, ieratiche, o dei corpi in piedi come statue senza piedistallo a dire il testo scespiriano sfrondato e sforbiciato; il che ne accresce, forse, la bellezza incalcolabile.
Se nel Macbeth di Polański del 1971 si sente il bisogno di fare afferrare a Macbeth collane e gioielli per sottolineare l’ambizione nascente; e durante il regicidio viene inquadrata la corona che rotola via e cade con fragore per terra, nel film di Kurzak, niente di tutto questo.
Durante l’omicidio del re vengono inquadrate rapidamente la luna e un cavallo legato nel cortile. Un movimento di camera sognante, e di nuovo il cavallo non è solo un cavallo, la luna è qualcos’altro.
Tutto è misurato senza esprimere marcatamente la misura, tutto evocativo senza appesantimenti. Una ripresa sui soldati: i gesti ordinari sono trattati come fossero altamente rituali, sono astratti sia perché rallentati sia perché spezzati nella loro semiotica, lasciati non finiti, come ritagliati da un cartone. Un combattente traccia le linee scure per la mimesi sul volto di un altro: sembra benedirlo. Un altro si fa il segno della croce. Molti pregano. Regna il silenzio, la postura di tutti è solenne, nei più giovani si avverte una sensazione di forte vulnerabilità rassegnata e si avverte il legame fra i guerrieri. La storia è appena nata, tutto è ancora vissuto apertamente, seguendo codici morali riconosciuti da tutti.
È l’ora della battaglia violenta e crudele, ma prima dell’arrivo delle streghe che porteranno la storia a un livello di violenza e di crudeltà inaudito, le faranno scivolare nell’abisso.
Se si muovono in gruppo, appesantiti dalle armi, la nebbia nasconde i soldati in parte rendendo le loro figure stilizzate. A tratti facendoli sembrare attori del Teatro Kabuki, a tratti incerti come in “Sogni” di Kurosawa. Come a dire che potrebbero essere parte di un sogno, o ombre del regno dei morti, perché con la morte sono in intimità, con lei hanno dimestichezza.
Infatti, dopo che la scena della battaglia comincia, iniziano le inquadrature di ferite e cadaveri, che prefigurano il senso macabro della narrazione che sta per svolgersi. Un uso (eccessivo a tratti) stilistico del rallenti, che ferma le urla di dolore, mostra gli schizzi del sangue. Nello sfondo, mentre la foschia muta colore, appaiono finalmente le streghe. In questa prima scena Macbeth uccide facendo una “fumosa strage”, ma colpisce con un valoroso faccia a faccia il nemico. Non è ancora compromesso, non è ancora implicato nell’uccisione a tradimento, per di più di un benefattore.
Se si pensa ai diversi Macbeth realizzati nel cinema, per mettere in scena testo, azioni, e tutta la costellazione di distruzioni, disfacimento della coscienza dei protagonisti, follia, tortura e morte il nero è onnipresente. Orson Welles nel 1948, forte del suo “bianco e nero” originale, utilizza bene il contrasto di luci, usa al massimo le soluzioni luministiche chiaroscurali, Il suo Macbeth è sempre in notturna, e utilizza la voce narrante per rendere i pensieri dolorosi e deliranti.
Nel film di Kurzel non esiste la voce narrante.
Orson Welles gira un film dove l’interiorizzazione dei personaggi è prevalente.
Il film di Kurzel si allontana dal teatro, e l’interiorizzazione di chi è in scena è tutta poetica. Il regista punta l’originalità della sua rivisitazione sulla fotografia, sull’uso dei colori, sull’uso della luce.
Se non avete visto questo film provate a fare attenzione durante la visione alla trasformazione dei guizzi, delle linee sottili alla Klee, alla metamorfosi delle forme della luce.
Sotto la salma taumaturgica del re che sta per essere sepolto un lampo trascorre rapidissimo. Candele, lampade, feritoie sottilissime di antichi muri, ma soprattutto significative sono le cadute in diagonale di ragnatele di chiarore da angolature diverse dai muri della cattedrale. Verso il finale, la luce si decompone nei paesaggi grigi, scarni, arcaici, preindustriali, ma anche negli interni in colori sporchi di grigio e bianco calce, per poi tramutarsi nel rosso allucinato. Come era rossa fiammante la primissima, breve inquadratura a inizio film.
Lady Macbeth non legge la lettera come da copione ma pronuncia una maledizione potentissima in ginocchio, mormorando la sua orazione blasfema davanti ai simboli sacri, alle candele accese, sulla pavimentazione arcaica e commovente di una cappella. La telecamera si stacca del suo volto e si sofferma su affreschi che mostrano anime dannate castigate e torturate da demoni e un arcangelo, probabilmente Uriel, con la chiave in mano, a guardia di un Eden difficilmente raggiungibile. In una cappella tutta illuminata da molte candele i due coniugi suggelleranno il patto fatale congiungendosi sessualmente, mettendo in atto un tantra al contrario che invece che alla trasfigurazione e all’estasi porta a un’euforica vittoria delle tenebre.
Perché se tutto il film è percorso da una preghiera che non sale mai verso il cielo trionfa pur sempre il senso di un rituale, seppur nero ed efferato; ed è girato in spazi di preghiera incredibilmente evocativi. Kurzel usa gli spazi di una cattedrale, quella di Ely in particolare.
Le streghe sono le protagoniste della storia; aprono infatti il primo atto della tragedia, con il loro linguaggio osceno e bizzoso. In Inghilterra, in Scozia, in Irlanda in modo spiccato è sempre stato dato largo spazio al soprannaturale e ai suoi abitanti. Pochi cittadini di quelle nazioni disconoscono gli effetti del potere magico.
Le streghe fanno leva, soprattutto, sul fatto di essere credute. Questo rende tutto possibile, una storia di formazione al contrario.
La struttura psichica di Macbeth, non adatta a contenere un male la cui radice è nata altrove e non dal suo profondo, crolla ben presto sotto le spinte del rimorso. Macbeth non è un sempliciotto, è capace di ragionamento come Amleto, ma è debole. Si riscatta alla fine, morendo da buon soldato, quale è, a cui doveva il suo valore all’inizio della storia. Per il resto non regge la tensione del patto che fa con sua moglie, non ce la fa – quasi da subito. Dopo aver commissionato l’uccisione del fedele amico Banquo sragiona.
Sua moglie cerca di arginarlo, ma poi cadrà vittima anche lei del più noto senso di colpa mai andato in scena nella storia del teatro:
LADY MACBETH: Via, macchia maledetta! Via, dico! Un tocco, due: ebbene, allora è tempo di farlo. L’inferno è buio! Vergogna, mio signore, vergogna! Un soldato, che ha paura? Perché temere che si sappia, se nessuno può chiamare il nostro potere a render conto?

Una recensione di Stelio Alvino al mio romanzo

Una nota sul mio romanzo del mio amico Stelio Alvino, che ringrazio:
“Questa sera ho terminato di leggere il nuovo libro di Patrizia Caffiero: NORA, UNA ESTATE A VILLA GENZIANA, Musicaos Editore. Ho deciso di parlarne perché stupito della mia voracità nel divorarne le pagine, una dopo l’altra in così breve tempo, inusuale per me. È un romanzo che trovo bellissimo e che mi fa capire come Patrizia Caffiero, scrittrice e poeta, leccese di origine ma emiliana d’adozione, in pochi anni abbia maturato e affinato pubblicazione dopo pubblicazione, questa sua dote nella scrittura. La trama, avvincente fin dalle prime pagine, ne fa una storia in cui il mistero, la tensione, l’imprevisto tengono sempre viva l’attenzione del lettore. Sullo sfondo di una vecchia e misteriosa villa in una località, Torre Sassi (di un Sud a me caro e vicino, dove colori, panorami, vegetazione, blu marino ma anche odori e sapori mi riportano indietro di parecchi anni), una giovane coppia in vacanza e soprattutto la loro bimba vivono un’esperienza angosciosa entrando nel fitto mistero che si nasconde tra quelle mura di una casa apparentemente abbandonata. Trama mai scontata, mai banale capace veramente di portare il lettore a vivere, insieme alla piccola protagonista, una esperienza tra presente e passato in un luogo pregno di ricordi, anche dolorosi e misteriose presenze. Tra queste pagine si respira qualcosa di oscillante tra Shirley Jackson con il suo “L’ incubo di Hill House” e quel capolavoro di Alejandro Amenábar con il suo “The others” del 2001. C’è inoltre un percepito, sottile, perfetto equilibrio oscillante tra Bene e Male, a donare al romanzo quella giusta tensione senza esagerazioni, a renderlo credibile oltreché piacevole nel dipanarsi della complessa trama. Approfittate di questo scampolo d’estate residua per trasferirvi anche voi a Villa Genziana immersi nel mistero e in qualche ora di buona lettura, proprio su quel dondolo, in giardino, che ogni tanto oscilla da sé anche nelle giornate prive di vento.”

“L’amore brucia” di Lee Chang-dong. Alcune note

Il tetto si è bruciato
ora
posso vedere la luna.
(Mizuta Masahide)

Il film è tratto da un racconto di Murakami, “Granai incendiati”, che era stato ispirato da  “Barn Burning” di Faulkner, che narra dell’incendio di un granaio. Ma all’autore non sarà sfuggito il folgorante romanzo “Il padiglione d’oro” di Mishima, in cui Mizoguchila incendia il tempio per sottrarsi alle complicazioni della Bellezza Eterna e poter vivere le esperienze su un piano terreno.

Jong-su è uno scrittore senza libro, nella sua essenza. Ciò si manifesta nel suo muoversi nel mondo come colui che scrive, che è in perpetuo ascolto del mistero. È cresciuto come una pianta selvatica, con un padre che non padroneggiava la sua aggressività e una madre anaffettiva che, presto, aveva lasciato la casa e i figli. La vendetta del marito abbandonato lo aveva costretto a bruciare in un rogo tutti i vestiti della mamma. Più di mille parole, un’azione del genere può segnare in profondità il destino di un ragazzo. Forse uno scrittore è anche questo, chi tenta di ricucire le sue ferite provando a mettere insieme i frammenti di storie, anche quelle degli altri che incontra. Cercare e trovare una storia è tentare di guarire; di dare un ordine al caos.

Jong-su incontra Hae-mi, una ragazza che era stata sua vicina di fattoria da bambina. Lei sta per partire per l’Africa, è affascinata dall’enigma dell’esistenza. Cerca “i grandi affamati”, quelli che si interessano alla ricerca del significato della vita. Ogni volta che parla, questa ragazza radiosa trasforma ogni sua esperienza vissuta in una narrazione coinvolgente, e a differenza di Jong-su, sa raccontare con tutto il suo corpo danzando, o con il linguaggio delle mani in pantomima. Non è tanto diversa dal suo amico: è una poetessa della vita. Jong-su ha un’andatura un po’ goffa, invece, una ridotta e contenuta gestualità. Le sue emozioni sono lievi, vibranti increspature che passano come il vento sul suo viso vulnerabile, sorgono e scompaiono in un istante. Come per un solo istante (gli racconta Hae- mi) appare nell’arco di una giornata il raggio di luce riflesso da una torre fuori dalla finestra nella sua camera da letto che Jong-su riesce a vedere – una vera epifania – mentre fa l’amore con la ragazza.
Si lega a lei intimamente e subito anche per quell’evento rivelatore. Uno scrittore si innamora di un universo simbolico che riguarda l’altro, di un segno che risignifichi la sua visione, che lo conduce lontano.
Hae-mi lascia le chiavi di casa al suo nuovo – vecchio amico, e parte per l’Africa carica delle sue grandi domande. Jong-su si occupa di un gatto che non si mostra mai e abita la casa di lei, arrivando a toccarsi guardando la torre e una foto di Hae-mi appesa alla parete. Il raggio non tornerà a manifestarsi. Ma la forma pura del desiderio non ha bisogno del reiterarsi dell’esperienza, si alimenta più che di ogni altra cosa di una mancanza.

Le case hanno grande importanza in questa storia. Così come le assenze, le scomparse, i ritrovamenti di persone, di oggetti, di ricordi. I doppi. La casa dell’infanzia di Hae-mi è stata abbattuta; le sembra di ritrovarla quando visita quella di Jong-su. Il pozzo in cui cadde quando aveva sette anni non esiste più, ma forse non c’è mai stato. Eppure lei ricorda di essere stata salvata da Jong-su quando stava per morire. Perché lui non se ne ricorda, invece? Il suo gatto esiste davvero? La madre di Jong-su ricompare dopo sedici anni, ma è davvero presente a sé e al figlio? La casa di Ben con cui Hae-mi si accompagna dopo il ritorno dal viaggio è del tutto diversa dalle case dei suoi giovani amici.

Senza insistere troppo nel tracciare un’ambientazione sociale e politica, con un segno leggero di matita il regista descrive a modo suo la Corea; per esempio mostrandone il paesaggio; lo sguardo sulla campagna e sulle serre è una notazione quasi antropologica. Poi, la netta differenza fra il mondo dei due ragazzi provenienti dalla campagna e quello di Ben. Jong-su è pieno di sospetti, si accorge che Ben gode di una ricchezza che deriva da nebulosi affari probabilmente non puliti, frequenta amici che appartengono al mondo dei ricchi. Sono loro che, a cena, ridono della delicata sensibilità di Hae-mi che emerge senza filtri quando racconta di sé e del suo profondo. In questa scena Jong-su resta come sempre in ascolto, vigile, mentre Ben sbadiglia, e gli amici seguono lo sciocco rumore di fondo di un ‘esistenza vuota, e poi il ritmo disgregante della musica di una discoteca.
Ancora: quando Jong-su lavora alla fattoria dei genitori una radio fa sentire in sottofondo la propaganda nord-coreana. Quella voce monocorde racconta un mondo, e non c’è bisogno di aggiungere altro Il regista lavora così per tutto il film, come se acquarellasse di continuo, per cenni, ombreggiature, non detto, lascia a noi spettatori l’incombenza di decifrare significati ulteriori.

Non ci sono dialoghi in eccesso, parole di troppo. La limatura del linguaggio è precisa. Quando i ragazzi sono insieme, e si raccontano, ogni parola conta. Hae-mi racconta di un’esperienza nel deserto, quando insieme a una spedizione turistica (di nuovo l’accenno a una società distonica, dei consumi) vede tramontare il sole. La sua è una messa in versi di un’esperienza, una dichiarazione di desiderio di morte. La sta invocando? Un altro degli innumerevoli percorsi presenti in questo film labirinto.

Al centro della riflessione dell’opera i tre protagonisti del film:  tre modus di interpretare il mondo. Jong-su, come abbiamo detto è una creatura di pura sensibilità. Sembra sfiorare appena il suolo con i suoi passi, è pieno di gentilezza e interesse per gli altri. Ricerca la verità, apprezza la bellezza e la lascia respirare. La sua afasia, che lo porta a non mettere nero su bianco ciò che vorrebbe scrivere è la stessa che gli impedisce di comunicare i suoi sentimenti all’amata. Quando decide di farlo per interposta persona – a Ben – cerca di cogliere una possibilità, o forse al contrario, decreta la morte della ragazza. Ha-emi è una creatura sottile, quasi trasparente; vive nel suo sogno, e sembra non essere in grado di comprendere ciò che la realtà rappresenta, con le sue opportunità e i suoi pericoli. Vola alto, dimenticando forse di mettere radici.

E poi c’è Ben, la zona oscura del pensiero. Colui che seduce, il predatore. In India li chiamano “asura”, forme vuote prive di anima che hanno dell’umano solo l’aspetto. Ben usa le parole e l’intelligenza per legare a sé gli altri, indovinando le loro segrete pulsioni, disprezzandole in cuor suo, ma stimolandone con maestria l’espressione, perché gli sarà, in seguito, necessaria per annientarli. Annientandoli, infatti, proverà il massimo piacere. Ben sa riconoscere come nessun altro la pulsione di vita e l’amore per servirsene. Come lui stesso dice, si percepisce come una divinità oscura a cui tutto è dovuto, che sopprime l’energia degli altri dopo averla bevuta per un po’, come l’argiope che tiene la preda nella tela per nutrirsene a poco a poco. Il legame tenero e puro fra Jong-su e Hae-mi è un frutto succoso e incredibilmente delizioso da divorare e da sterminare.

“L’amore brucia” è un’opera magnifica, che non è rassicurante, non dona facili soluzioni, ma crea uno spazio di riflessione ampio, dove è possibile sognare, riconoscersi, e formulare grandi domande.

Qualche nota su “Great freedom” di Sebastian Meise

“Cercare una cosa/è sempre incontrarne un’altra./Così, per trovare qualcosa,/bisogna cercare quello che non è./Cercare l’uccello per incontrare la rosa/cercare l’amore per trovare l’esilio,/cercare il nulla per scoprire un uomo,/tornare indietro per andare avanti” (Robert Juarroz)

Hans, per essere ebreo e gay viene rinchiuso nel lager durante la guerra e dal 1945 viene incarcerato più volte in un penitenziario di massima sicurezza a causa del Paragrafo 175, l’articolo del codice penale che vietava in Germania ogni manifestazione del desiderio omosessuale. Solo nel 1969 questo abominio verrà abolito.

La telecamera segue le azioni dei prigionieri e dei secondini lentamente, quasi in tempo reale. Anche se non è rispettata l’ unità di luogo e tempo come richiedeva il decalogo di regole di “Dogma 95” di von Trier e Vinterberg, in senso ampio gli anni che passano, i visi che si consumano invece di invecchiare e le diverse celle o gli insensati lavori “utili” fatti dai prigionieri sembrano agire e significare un unico spazio. L’uso sapiente delle fitte penombre e l’abilità pittorica della fotografia che delinea virature vintage dei colori freddi, il dispiegamento della routine dilatata dei gesti quotidiani; le punizioni che si susseguono ritmicamente, tutto fa smarrire allo spettatore il senso di una trama definita.

La precisione con cui possiamo osservare i dettagli degli accadimenti: ci viene mostrato l’incisione di un tatuaggio di fortuna nella pelle di Hans quasi punto per punto, a coprire il numero di identificazione del campo di concentramento, Glielo fa Viktor, l’ ombroso omofobo compagno di stanza che progressivamente diventerà un amico fraterno.

Il carcere diventa in questo modo un palcoscenico, perde di realisticità. Chi è dentro lo spazio punitivo non ha più nulla da perdere perché tutto ha già perduto: gli sono stati tolti i propri oggetti personali, i propri vestiti, la credibilità sociale, la libertà di decidere come segnare il tempo della sua esistenza.

Chi subisce un simile trattamento può scegliere due strade: la perdita della propria identità, l’interiorizzazione totale del programma della pena, o al contrario, come Hans, sviluppare al massimo la capacità di mantenere intatto il fuoco mite e mai rassegnato della ribellione, il sacro senso del proprio erotismo, la capacità di amare. Hans è un dono.

Le sue permanenze nella cella di isolamento, che scandiscono le inesorabili prese di posizione scandiscono il tempo del film. Nel buio assoluto della stanzetta al prigioniero, senza vestiti né alcuna dignità, non resta davvero più nulla a cui aggrapparsi; non gli resta che morire o rinascere.

In questi momenti il regista ci regala le vette di una poesia delle piccole cose. Qualcuno da fuori getta “dentro “al prigioniero una scatola di cerini. Nella tenebra, Hans accende quel fiammifero con gioia infinita. Una voce di sax appena accennata segna quei momenti, e pochi altri della pellicola. Seguite la voce del sax. Rappresenta la voce di un difficile, quasi impossibile ma profondo ed emozionante risveglio dell’anima.

Hans trascende il suo personaggio, appare come una sorta di emissario dell’amore a tutto tondo. Il suo ragazzo lo chiarisce in modo esplicito, quando dandogli l’addio lo ringrazia per essere stato, per lui, fonte di ispirazione. Ha amato la sua mancanza di paura e, infatti, “si è sentito più vivo” da quel momento. Anche se in modo indiretto, l’intero film è una critica a una società – quella di ieri e quella di oggi- che definisce (Foucault e non solo) il controllo sugli spazi dell’esistenza dei singoli, che non permette all’individuo di realizzarsi compiutamente in tutte le sue parti.

Hans non può non trasgredire. Non può non sovvertire le regole continuamente. Si sacrifica a favore di un compagno perché ritiene che, essendo un insegnante, la sua vita valga più della sua.

Anche altre scene e personaggi del film sono altamente significativi; ci sarebbe molto da dire, ma mi soffermo solo un altro particolare.

Per inviare una lettera d’amore al suo ragazzo Hans fora le pagine – isolando qua e là parole che compongono il suo testo di una bibbia – costruisce un codice che solo l’altro, lui lo sa, sarà in grado di decriptare.

Per far consegnare la bibbia, suo malgrado, Hans offrirà una prestazione sessuale a chi può girare per le celle per la gavetta con il pranzo. Senza chiose, né didascalie, questa situazione ci mostra che la sacralità dell’amore può rimanere viva e intatta anche in situazioni disperate, borderline, estreme.

Non è la circostanza favorevole che rende la vita degna d’essere vissuta, ma la coscienza individuale di un uomo che, in qualsiasi occasione, la più avversa, continua a fare sfolgorare, indomito, una potente capacità di amare e di ricevere l’amore.

La scena finale è inaspettata, potente, e chiarisce, rafforzandolo meravigliosamente, il messaggio che percorre tutto il film.

Alcune note su un film di Abbas Kiarostami

“Il soggetto non è padrone del senso, è in mancanza, è in assenza di senso. Il senso di un’espressione sfugge sempre a chi la enuncia e in fondo è l’Altro a dare al linguaggio il suo senso”.

J. P. Sartre, “L’essere e il nulla”.

“Le mie immagini non sono il risultato del mio amore per la fotografia, ma del mio amore per la natura. È qualcosa di simile a un regalo o a un ricordo”. “Per me è come un calmante, ha su di me un effetto terapeutico magico”
Abbas Kiarostami.

“Il vento ci porterà via” di Abbas Kiarostami, del 1999. Il titolo di questo film è il primo enigma che si presenta, anche se abbiamo l’indicazione esplicita dal regista che quest’opera dalla forma aperta sia avvolta a spirale attorno alla poesia dallo stesso titolo di Forugh Farrokhzad. Il film, quindi, si inscrive in quella costellazione di opere che amano altre opere e partono da loro per erigersi con una forma poetica autonoma, senza perdere il legame con l’impronta preesistente. L’idea del vento che trascina ciò che trova con sé, in ogni caso, porta un’idea di instabilità; associo a questo il film capolavoro “Io e il vento” di Joris Ivens del 1989, il testamento di un regista magistrale e visionario che, anziano e ormai fragile, si spinge fino in Cina per catturare l’immagine invisibile del vento in paesaggi lunari, seduto su una sedia surreale.

Rincorrendo la filosofia del Verso della poetessa iraniana, la pellicola è stata scritta e girata nel modo in cui si scrive un poema. “Il vento ci porterà via” richiede un notevole apporto di chi guarda. Non ama la velocità, ci chiede di seguire i suoi tempi. Come la grande poesia non preferisce la definizione, non chiude le strade. La struttura è un canovaccio, si dipana come filo di lana che si sgrana nelle mani ruvide di un’antica artigiana. Tocca a noi costruire la nostra storia davanti alla frequente assenza in senso lacaniano di risposte razionali dei dialoghi, delle azioni. O forse appare così a me, spettatore occidentale, ma non a chi affonda le radici nella cultura mediorientale, che non oggettiva le cose, si pone dentro la loro magia.

Il protagonista, Behzad, che arriva in un villaggio curdo iraniano a 700 km da Teheran con amici che intravediamo solo una volta, da lontano, si prende tutta la scena. I suoi movimenti sembrano frutto del caso, il suo corpo aguzzo e dinoccolato è al centro di un flusso di eventi che non dipendono quasi mai dalla sua volontà. C’è qualcosa di kafkiano nella storia. Lo stesso attributo con cui viene chiamato da tutti, “ingegnere”, è generico. Un ingegnere per definizione segue un progetto funzionale, registra e organizza la realtà, edifica, ma in realtà lui, in più di un’occasione, recita versi. Sembra sia un regista che intende filmare una cerimonia funebre di una donna malata. Quest’intenzione è un pretesto, rimane sullo sfondo. Tutto ciò che accade nel film sembra un pretesto per dire altro. La sua vita, che seguiamo nell’arco di pochi giorni, è ritmata in modo anche ironico da telefonate venute da un “nebuloso” fuori. Corre continuamente a piedi o in auto per agganciare una sfuggente connessione.

Mentre si muove compulsivamente, in contrasto con lo scorrere lento della vita del villaggio, per afferrare una voce che vorrebbe riportarlo a doveri non esattamente identificati, a a una logica, la telecamera ci mostra paesaggi selvaggi e incontaminati, che potrebbero essere quelli di un millennio fa. Eccolo, il pretesto per mostrare ciò che conta veramente.

Il villaggio non è sconnesso da ciò che sono i confini e da ciò che sconfina con esso. Gli animali vivono a fianco degli abitanti, nelle stradine, nelle stesse abitazioni. Ha gli stessi colori della terra su cui è costruito e da cui è circondato, è rimasto quasi inalterato nel tempo, invulnerabile alle nuove tecnologie. La telecamera si muove senza strappi, con la curiosità che provoca l’amore, l’osservazione partecipe, fra stradine, gradini consunti. La sua consistente presenza è un discorso compiuto e ricco; già solo per quello che con i segni riferisce. Parla a voce alta tramite i suoi oggetti, gli arredi scarni, una finestra verniciata di blu. Con le angolature impossibili delle sue case tutte diverse l’una dall’altra, le cui stanze non rifinite, dalla forma geometrica non regolare seguono l’andamento del terreno.

Il villaggio si esprime fortemente con i segni: il gesto di servire il tè; il movimento ancestrale di una donna che sta compiendo con un utensile che esisteva già mille anni fa. Pasolini avrebbe detto che è realtà che si esprime con la realtà.

Gli uomini con cui l’ingegnere parla durante la sua permanenza, il dottore, il maestro, sono figure solitarie, vibranti, che parlano di sé rivelando sogni e destini. I loro volti sono differenti dal volto del protagonista, chiuso e serio. Il viso di Fahrzad, il bambino suo amico, ad esempio, è il paesaggio più emozionante del film, pieno di accoglienza e di amore fiducioso verso lo sconosciuto, aperto e vulnerabile; paesaggio perduto, chiuso verso la fine del film (non ne appare che la voce, la telecamera neppure lo riprende più) per via di una scortesia ricevuta e non meritata.

Fahrzad, forse l’occulto protagonista della storia è sempre intento a compiere degli esami misteriosi. Rappresenta, come tutti gli abitanti del villaggio, sé stesso e un’allegoria. A fronte delle corse scarmigliate dell’ingegnere, gli abitanti restano ieratici, mostrando una presenza fisica e carismatica che li fa assumere un peso specifico. Ogni abitante che incontra l’ingegnere è una possibilità, che non sempre riesce ad afferrare. Behzad, emissario della grande città, lontanissima nello sfondo di una vita lenta e significativa, non ha ogni volta che serve, la capacità di contattare profondamente la vita arcaica, la nicchia di senso che sprofonda nella storia fino ad arrivare quasi alla mitologia. Ma niente è lapalissiano, è definito, si diceva. Anche l’ingegnere, nel suo analfabetismo culturale, grazie alla conoscenza della poesia per brevi istanti riesce ad accedere nella sacralità del luogo.

Lo fa, poi si disconnette come sconsacrandolo, poi ancora immergendosi, in un movimento estenuante della scrittura. I momenti di violazione: quando usa la macchina fotografica per catturare le immagini. Quando usa l’aggressività verbale contro il bambino che gli sta recando il pane, perdendo la sua amicizia. Quando rovescia con un calcio la paziente tartaruga che sta realizzando la sua missione nel mondo con il suo lento cammino. Il regista gioca sul vuoto di senso continuamente. L’uomo che scava il pozzo non si vedrà mai. Tante volte la narrazione è affidata al racconto di altri. I colleghi dell’ingegnere non compaiono. L’ingegnere si rivolge a loro da una porta, spingendoci a credere siano all’interno. Stanno dormendo, hanno preso l’auto, hanno lasciato la macchina fotografica all’interno. Il libro del bambino è rimasto sul cruscotto. Tutto è inquieto, instabile, come in un sogno. Non c’è una sola strada per arrivare in un luogo. Non ci sono punti di riferimento precisi nelle mappature. Anche la signora anziana in procinto di morire non si vedrà mai, è solo raccontata, come da un coro greco. L’ingegnere carpisce notizie e informazioni su di lei, agendo la sua natura da predatore. Avidamente ascolta le notizie su di lei, sperando che muoia presto, per realizzare il suo progetto. “Oggi ha mangiato. Oggi ha riconosciuto i suoi parenti. Non mangia più. Forse morirà entro tre giorni.”

Come in tutte le grandi opere, non c’è la discriminazione fedele fra giusto e sbagliato. In uno dei tanti resoconti che alcuni personaggi dialoganti con l’ingegnere restituiscono, c’è il racconto di uno sfregio che una donna si è fatta in occasione di un funerale perché il marito si garantisse un posto di lavoro a discapito dei suoi colleghi. Anche nel microcosmo di una vita rimasta intatta nei secoli, ecco il germe della sopraffazione, della lotta fra poveri per procacciarsi il cibo. Come a sfatare la contrapposizione troppo facile fra concetto di bene appartenente all’arcaico, e il male appartenente al nuovo mondo. Per questo Behzad, quando suggerisce la risposta a “un esame” del bambino che riguardava il luogo in cui andranno i cattivi e i buoni dopo la morte in prima battuta gli dice che i cattivi andranno in paradiso; poi dà la risposta “esatta” che richiede la prova. Questo inciampo, è come un occhiolino che lancia Kiarostami a noi spettatori, una traccia che ci dà.

La presenza delle donne nel film è importante. Tante le figure, vere apparizioni, che la storia ci mostra, inserite nelle architetture del luogo come cariatidi che reggono un tempio, numinose nella loro straniante bellezza, fiere e a volte dure come una divinità pagana. Qualcuna, come farebbe qualsiasi donna di un piccolo villaggio in qualsiasi parte del mondo, dà un’occhiata fuggitiva e maliziosa da lontano allo straniero.

Nel film ha molto peso il concetto di cibo, che non è solo nutrimento e approvvigionamento, ma rimanda a un contenuto più ampio, simbolico; appartiene al tempo in cui le parole e le cose non erano state ancora del tutto separate.

Fahrzad spiega all’amico che ogni casa del villaggio offre il latte a chi lo chiede. Ma l’ingegnere, non sempre sa chiedere. Non conosce il linguaggio del villaggio. Spesso, è goffo. Quando, dopo le solite attese, ritirate, riprese di un’azione che il film opera continuamente tenendoci svegli sulle punte vive della curiosità, si decide a chiedere, per prima cosa sbaglia casa.
Poi arriva in quella che gli era stata segnalata. Deve scendere in una cantina per ricevere il latte da una figura misteriosa, una sorta di archetipo del volto dell’amore. Anche l’amore fra Eros e Psiche si svolgeva al buio. Quando Psiche svela con una lanterna il volto dell’amato, spinta da una curiosità inarrestabile, Eros l’abbandona. L’antica saggezza di questa ragazza, di cui solo noi ravviseremo fuggevolmente il viso, che non riuscirà a vedere l’ingegnere, la spinge a non mostrarsi, a non rivelare il suo nome allo sconosciuto.
Come a ribadire qualcosa che è già presente in tutto il film. L’anima del villaggio non si svela a chi non mostra il dovuto rispetto. Il nome di qualcuno, anticamente, nelle pratiche esoteriche, doveva restare segreto, perché poteva essere usato in magie contrarie da un avversario. Dire il nome di qualcosa o di qualcuno significa mettersi in relazione con lui nel profondo. Si può fare; ma con la dovuta cautela. Behzad non ha talento per questo, e la ragazza non si svela. Ma qualcos’altro succede. L’incontro tra i due non è privo di conseguenze perché l’ingegnere, mentre la ragazza munge l’animale, pronuncia dei versi e le racconta di una poetessa, la stessa che muove tutta la creazione del film.
La ragazza sembra accendersi, prendere coscienza di sé, uscendo dai meandri di una passività millenaria. Non si svela, ma pregherà la madre che chiede soldi per il latte a Behzad (contravvenendo alle antiche norme di ospitalità del villaggio, non affascinata dallo straniero) di restituirli. Dal gesto di intermediazione comprendiamo che l’ingegnere ha toccato la vita, l’ha conquistata, non ne è rimasto fuori, stavolta. La scena è di una eloquenza visiva fortissima, pittorica; l’oscurità è rotta da fasci di luce provenienti da una lanterna posata sul pavimento. Le domande scandite e incalzanti di Behzad, i versi che pronuncia e le risposte a volte date a volte negate dalla sua interlocutrice, sono uno dei momenti più alti di questo film originale, intelligente, lirico, sorprendente.

Notturna

Da mille anni cerco la mia tribù

dispersa oltre confine

prediligo le anime che suonano il tamburo

cercando un ritmo irresistibile.

A Natale non faceva mai freddo

gli avventori si sedevano fuori dai ristoranti

con le stufe spente e senza guanti

a parlare per ore di cose da poco

per il piacere di fermarsi uno vicino l’altro.

Forse le parole che passavano

da una bocca all’altra

da una mano che gesticolava

all’altra che scostava i capelli dalla fronte

trascorrendo nell’aria

non contavano nulla

oppure erano così decisive

da guidare il destino del pianeta.

Una parola può mutare la scia di una stella

cambiare la rotta della nave merci, fermare il traffico

una parola sconsiderata, disarmata

allertata 

caduta dal petto sgualcita

sbalestrata, delicata

può portarmi fino a te.

Le otto montagne (il film)

Ho visto “Le otto montagne” due sere fa, e come mi è accaduto per pochissimi film (successe con “Le onde del destino”, ricordo, e con “Before the rain”) non ha smesso di lavorare dentro di me. Non è solo per la lunghezza della proiezione (2 ore e mezzo) che si impongono così tanti temi alla nostra attenzione di lettori/spettatori. Lettori perché questo film, in modo del tutto misterioso, è un libro. Non perché gli sceneggiatori abbiano esagerato con la voce narrante, che solo di rado inserisce, quasi sempre senza modificarli (ho controllato oggi), brevi brani del testo di Cognetti. È un libro perché questa sceneggiatura funziona, lascia spazio a chi guarda (contempla) la pellicola perché entri in risonanza e ri-crei le proprie immagini, non mostra sbavature, avanza con lentezza e poetica coerenza. I dialoghi sono ridotti.
A chi osserva è affidata, a volte, la responsabilità del dipanarsi di una trama in cui un bambino diventa adolescente solo con un cambio rapidissimo d’inquadratura. Parlano con prepotenza silenziosa gli oggetti, gli arredi delle case dei borghi semiabbandonati, i paesaggi, parla la montagna, nel ripetersi innamorato di inquadrature di una fotografia stupendamente bella (del fantastico Rubens Impens) di sentieri, di sassi, di cime, di pezzi di case e tetti. Le case, sono centrali. C’è la casa di Torino, la casa essenziale affittata per l’estate in montagna, fino ad arrivare a una dimora ancora più sobria, archetipale e simbolica come un tempio, la casa che costruiscono i due amici, che ricompone una separazione forzata.
La narrazione di Cognetti è rispettata, anche se a mio parere andava citata anche en passant la storia della tragica amicizia del padre di Pietro con il cugino della moglie, che come accade nelle grandi storie è sintomo e prefigurazione di ciò che verrà; forse giustificherebbe gli attacchi d’ira frequenti e logoranti del padre del protagonista che per altri versi si fa amare e rispettare.
Il testo del libro/film è attento a ciò che si ripete, cerca il doppio misterioso e perturbante. Sottolinea che Pietro si innamora di una donna che fa lo stesso lavoro di sua madre. Sua madre e suo padre hanno un solo figlio, ma in realtà ne hanno due. I familiari di Pietro hanno almeno due vite, quella della città che frastorna, distrae e che per Pietro bambino “potrebbe rovinare il suo amico” e quella della montagna aspra che invece riporta alla purezza delle intenzioni, all’amicizia appunto, all’amore, oltre che alla disperazione e alla solitudine più assoluta, accecante e fredda come la neve.


Due, sempre due. I due amici si dividono le mansioni esistenziali: uno è quello che viaggia, l’altro è quello che resta, che aspetta. Uno, secondo il protagonista, è quello più adatto a relazionarsi con suo padre, l’altro no. Allo stesso modo le montagne sono chiamate in due modi, c’è chi nomina ogni cima, ogni luogo, persino un lago con precisione e chi invece di montagne e ampio paesaggio ne fa un solo nome, “Grenon”. Opposizioni. Contrasti. Nella famiglia di Pietro (che si chiama Berio, per Bruno) il padre è preda dell’ira, la madre cerca di riconciliare le persone di famiglia, estendendo la sua azione amorevole a coloro che entrano nel suo raggio d’azione.
Intanto questo film è per prima cosa la storia di un’amicizia baciata dagli dei, la philìa per i greci, da tutti ricercata e raramente trovata, che va oltre le distanze sociali, geografiche, caratteriali. Racconta anche di un’evoluzione spirituale, con sobrietà, evitando schematismi, riuscendo a non sentenziare mai.
Quando Pietro racconta a Bruno delle otto montagne contrapposte alla montagna più alta da raggiungere il momento è sdrammatizzato da risate, che lo alleggeriscono, rendendolo più convincente.
L’opera è costruita intorno alla problematica del percorso di un aspirante scrittore. La tematica è suggerita, mai sottolineata con pesantezza. Guardiamo ciò che accade nello specchio con cui Perseo affronta Medusa. “Si parla d’altro per parlar della corona”. Il protagonista, infatti, alter ego di Cognetti, si vede solo per pochi secondi battere un testo a un computer, e si accenna a un suo libro con poche battute. In realtà il film è basato, in fondo, sulla difficoltà che esiste quando si desidera svincolarsi da convenzioni, strutture familiari troppo chiuse, persino da paesaggi che ci nutrono e ci soffocano per arrivare alla consapevolezza di poter battezzare e benedire il proprio destino.


Ciò tenta di farlo anche Bruno, che come Pietro si svincola dal suo destino; lui, in particolare, dal cappio esistenziale che gli ha imposto un padre manesco e insensibile, che gli ha negato la possibilità di studiare con i generosi borghesi arrivati dalla grande città (Torino nel film, Milano nel libro). Prova a seguire – perfino ottusamente, alla fine, la voce dei suoi antenati, antieroe in una società che non permette più di sopravvivere nella durezza dei monti con quello che si produce e si vende. E qui, come accade nelle grandi narrazioni, in controluce ecco la critica a toni pacati ma fermi di una società che non si preoccupa più delle “piccole patrie”, che passa cieca come un carrarmato sulle piccole comunità già disintegrate dalla fuga dei residenti verso i grandi centri.
Ben trattato è il rapporto fra il protagonista e il padre, rifiutato e amato con forza, invece, poi nell’assenza. Pietro lo ricerca su mappe della memoria che hanno consistenza fisica, sono le carte topografiche della montagna scalata. Lo decifra seguendo le linee del pennarello con cui l’uomo segnava i sentieri fatti con il figlio o con Bruno. Lo cerca sui fogli consumati dei libri dell’ospite presso i rifugi.


Tutto in questo film (come nel libro), anche l’argomento più denso e tragico è trattato in un modo sapiente e stilisticamente raffinato. Noi spettatori camminiamo con gli attori sugli stretti sentieri fra gli abissi, proviamo a saltare un crepaccio che monta su un ghiacciaio con il mal di montagna, soffriamo per non avere saputo comunicare con chi abbiamo amato, e per non averlo saputo, forse, salvare. Grandissimo film (da un grandissimo libro).