
Il tetto si è bruciato
ora
posso vedere la luna.
(Mizuta Masahide)
Il film è tratto da un racconto di Murakami, “Granai incendiati”, che era stato ispirato da “Barn Burning” di Faulkner, che narra dell’incendio di un granaio. Ma all’autore non sarà sfuggito il folgorante romanzo “Il padiglione d’oro” di Mishima, in cui Mizoguchila incendia il tempio per sottrarsi alle complicazioni della Bellezza Eterna e poter vivere le esperienze su un piano terreno.
Jong-su è uno scrittore senza libro, nella sua essenza. Ciò si manifesta nel suo muoversi nel mondo come colui che scrive, che è in perpetuo ascolto del mistero. È cresciuto come una pianta selvatica, con un padre che non padroneggiava la sua aggressività e una madre anaffettiva che, presto, aveva lasciato la casa e i figli. La vendetta del marito abbandonato lo aveva costretto a bruciare in un rogo tutti i vestiti della mamma. Più di mille parole, un’azione del genere può segnare in profondità il destino di un ragazzo. Forse uno scrittore è anche questo, chi tenta di ricucire le sue ferite provando a mettere insieme i frammenti di storie, anche quelle degli altri che incontra. Cercare e trovare una storia è tentare di guarire; di dare un ordine al caos.
Jong-su incontra Hae-mi, una ragazza che era stata sua vicina di fattoria da bambina. Lei sta per partire per l’Africa, è affascinata dall’enigma dell’esistenza. Cerca “i grandi affamati”, quelli che si interessano alla ricerca del significato della vita. Ogni volta che parla, questa ragazza radiosa trasforma ogni sua esperienza vissuta in una narrazione coinvolgente, e a differenza di Jong-su, sa raccontare con tutto il suo corpo danzando, o con il linguaggio delle mani in pantomima. Non è tanto diversa dal suo amico: è una poetessa della vita. Jong-su ha un’andatura un po’ goffa, invece, una ridotta e contenuta gestualità. Le sue emozioni sono lievi, vibranti increspature che passano come il vento sul suo viso vulnerabile, sorgono e scompaiono in un istante. Come per un solo istante (gli racconta Hae- mi) appare nell’arco di una giornata il raggio di luce riflesso da una torre fuori dalla finestra nella sua camera da letto che Jong-su riesce a vedere – una vera epifania – mentre fa l’amore con la ragazza.
Si lega a lei intimamente e subito anche per quell’evento rivelatore. Uno scrittore si innamora di un universo simbolico che riguarda l’altro, di un segno che risignifichi la sua visione, che lo conduce lontano.
Hae-mi lascia le chiavi di casa al suo nuovo – vecchio amico, e parte per l’Africa carica delle sue grandi domande. Jong-su si occupa di un gatto che non si mostra mai e abita la casa di lei, arrivando a toccarsi guardando la torre e una foto di Hae-mi appesa alla parete. Il raggio non tornerà a manifestarsi. Ma la forma pura del desiderio non ha bisogno del reiterarsi dell’esperienza, si alimenta più che di ogni altra cosa di una mancanza.
Le case hanno grande importanza in questa storia. Così come le assenze, le scomparse, i ritrovamenti di persone, di oggetti, di ricordi. I doppi. La casa dell’infanzia di Hae-mi è stata abbattuta; le sembra di ritrovarla quando visita quella di Jong-su. Il pozzo in cui cadde quando aveva sette anni non esiste più, ma forse non c’è mai stato. Eppure lei ricorda di essere stata salvata da Jong-su quando stava per morire. Perché lui non se ne ricorda, invece? Il suo gatto esiste davvero? La madre di Jong-su ricompare dopo sedici anni, ma è davvero presente a sé e al figlio? La casa di Ben con cui Hae-mi si accompagna dopo il ritorno dal viaggio è del tutto diversa dalle case dei suoi giovani amici.
Senza insistere troppo nel tracciare un’ambientazione sociale e politica, con un segno leggero di matita il regista descrive a modo suo la Corea; per esempio mostrandone il paesaggio; lo sguardo sulla campagna e sulle serre è una notazione quasi antropologica. Poi, la netta differenza fra il mondo dei due ragazzi provenienti dalla campagna e quello di Ben. Jong-su è pieno di sospetti, si accorge che Ben gode di una ricchezza che deriva da nebulosi affari probabilmente non puliti, frequenta amici che appartengono al mondo dei ricchi. Sono loro che, a cena, ridono della delicata sensibilità di Hae-mi che emerge senza filtri quando racconta di sé e del suo profondo. In questa scena Jong-su resta come sempre in ascolto, vigile, mentre Ben sbadiglia, e gli amici seguono lo sciocco rumore di fondo di un ‘esistenza vuota, e poi il ritmo disgregante della musica di una discoteca.
Ancora: quando Jong-su lavora alla fattoria dei genitori una radio fa sentire in sottofondo la propaganda nord-coreana. Quella voce monocorde racconta un mondo, e non c’è bisogno di aggiungere altro Il regista lavora così per tutto il film, come se acquarellasse di continuo, per cenni, ombreggiature, non detto, lascia a noi spettatori l’incombenza di decifrare significati ulteriori.
Non ci sono dialoghi in eccesso, parole di troppo. La limatura del linguaggio è precisa. Quando i ragazzi sono insieme, e si raccontano, ogni parola conta. Hae-mi racconta di un’esperienza nel deserto, quando insieme a una spedizione turistica (di nuovo l’accenno a una società distonica, dei consumi) vede tramontare il sole. La sua è una messa in versi di un’esperienza, una dichiarazione di desiderio di morte. La sta invocando? Un altro degli innumerevoli percorsi presenti in questo film labirinto.
Al centro della riflessione dell’opera i tre protagonisti del film: tre modus di interpretare il mondo. Jong-su, come abbiamo detto è una creatura di pura sensibilità. Sembra sfiorare appena il suolo con i suoi passi, è pieno di gentilezza e interesse per gli altri. Ricerca la verità, apprezza la bellezza e la lascia respirare. La sua afasia, che lo porta a non mettere nero su bianco ciò che vorrebbe scrivere è la stessa che gli impedisce di comunicare i suoi sentimenti all’amata. Quando decide di farlo per interposta persona – a Ben – cerca di cogliere una possibilità, o forse al contrario, decreta la morte della ragazza. Ha-emi è una creatura sottile, quasi trasparente; vive nel suo sogno, e sembra non essere in grado di comprendere ciò che la realtà rappresenta, con le sue opportunità e i suoi pericoli. Vola alto, dimenticando forse di mettere radici.
E poi c’è Ben, la zona oscura del pensiero. Colui che seduce, il predatore. In India li chiamano “asura”, forme vuote prive di anima che hanno dell’umano solo l’aspetto. Ben usa le parole e l’intelligenza per legare a sé gli altri, indovinando le loro segrete pulsioni, disprezzandole in cuor suo, ma stimolandone con maestria l’espressione, perché gli sarà, in seguito, necessaria per annientarli. Annientandoli, infatti, proverà il massimo piacere. Ben sa riconoscere come nessun altro la pulsione di vita e l’amore per servirsene. Come lui stesso dice, si percepisce come una divinità oscura a cui tutto è dovuto, che sopprime l’energia degli altri dopo averla bevuta per un po’, come l’argiope che tiene la preda nella tela per nutrirsene a poco a poco. Il legame tenero e puro fra Jong-su e Hae-mi è un frutto succoso e incredibilmente delizioso da divorare e da sterminare.
“L’amore brucia” è un’opera magnifica, che non è rassicurante, non dona facili soluzioni, ma crea uno spazio di riflessione ampio, dove è possibile sognare, riconoscersi, e formulare grandi domande.